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Michael Ende: perché gli Ebrei ci hanno insegnato l’umorismo

Michael Ende

Michael Ende

Uno stralcio della conferenza tenuta da Michael Ende nel 1985 in Giappone  sul tema: “perché si scrive per i bambini”. Concludendo le sue argomentazioni l’autore de la Storia Infinita rende calorosamente questo omaggio al popolo ebraico e al suo gusto per l’ironia paradossale, capace di fuggire il rischio di qualsiasi estremismo.

“Dovevo darvi delle spiegazioni del perché scrivo per bambini o del perché scrivo e basta. Il gioco della fantasia, libero e privo di finalità,  è stata la mia prima risposta, da cui scaturisce il crieterio della bellezza, che, a sua volta ci ha portato fino al meraviglioso e al mistero. Se mi è concesso di definire questi tre concetti come i tre punti cardinali del mio mondo poetico ecco che manca il quarto che è, per l’appunto, l’umorismo.

Vedete, signore e signori, tutto quanto ho detto finora, potrebbe condurci ad una variante del dogmatismo. Potrebbe fare dello scrittore qualcosa di simile a un guru del proprio pubblico, un maestro esoterico dei suoi lettori, ma significherebbe che la sua azione si serve di mezzi diversi da quelli puramente artistici. Lo scrittore diverrebbe a sua volta soltanto un propagandista del suo messaggio, servendosi della poesia semplicemente per confezionarlo al meglio. Ed è una cosa che dovrebbe essere assolutamente evitata.

Da questo rischio ci salva solo e unicamente l’umorismo. Va da sé che anche dell’umorismo non è possibile trovare una definizione esauriente. Non lo si può misurare né quantificare, né tantomeno sottoporre a un test. L’umorismo si sottrae a qualsiasi premeditazione, non può essere mai fanatico né dogmatico, ma è sempre umano e amichevole. E’ quell’atteggiamento interiore che ci permette di ammettere senza rancorosità la nostra inadeuguatezza, rendendoci leggeri, e di prendere coscienza dell’inadeguatezza degli altri con un sorriso. L’umorismo non è lo stesso della saggezza, ma le è parente stretto. L’umorismo, secondo me, l’hanno scoperto gli Ebrei, ed ho delle buone ragioni per dirlo. Nella maggior parte delle altre civiltà le persone sono idealiste o realiste. L’idealista rivolge lo sguardo solo all’essenziale, al sublime, al divino, trascurando le fastidiose banalità della vita. Chi invece è realista considera solo le miserie del mondo e ritiene illusoria ogni cosa più elevata. Nella loro lunga e dolorosa storia gli Ebrei hanno imparato a lasciar andare per la loro strada i due opposti estremismi, vivendo in questa tensione tra l’Alto e il Basso e sostenendola con la loro proverbiale ostinazione. Sanno come si debba camminare mangiando dolorosamente la polvere e sanno del Dio eterno. E a furia di mangiar polvere e nella modestia riescono ad arrivare fino al trono di Dio. Questo è il vero umorismo.

Dal momento che qui essenzialmente l’argomento è la letteratura per bambini o per il bambino che c’è in ognuno di noi non vi dico nulla di nuovo se aggiungo ancora che i bambini sono particolarmente ricettivi per il vero umorismo più di ogni altra cosa, perché esso gli insegna che gli errori ci sono e si fanno ma che altresì siamo amati proprio per i nostri errori”

Tratto da Michael Ende, Storie Infinite, a cura di Saverio Simonelli, Rubbettino Editore, 2010

Una fiaba di Michael Ende letta in Giappone

“Scrivo perché in me c’è un bambino dal quale non mi separa un abisso. Anzi, quella parte di me è tuttora con me”. Altro che teoria del fanciullino e altre amenità da manualetto letterario. Questa dichiarazione candida e serissima, nonché oggettivamente articolata, è parte di un intervento straordinario tenuto nel 1986 a Tokyo da Michael Ende in occasione dell’annuale convegno del Comitato Internazionale per la letteratura giovanile (Ibby). Il testo – contenuto nell’antologia curata da Roman Hocke – ‘Michael Endes Zettelkasten’ (Stuttgart –Weitbrecht  1994) e tradotto da Saverio Simonelli in ‘Storie infinite’ (Rubbettino 2009) è una miniera di valore inestimabile per chi voglia conoscere il pensiero del maestro tedesco e approfondire le ragioni profonde della scrittura nel più ampio senso possibile.

 

E si inizia, ovviamente, con una fiaba…

 

Gentilissimi signore e signori, (…) non sono un critico letterario né un filosofo della cultura, né sono un provetto conoscitore della letteratura mondiale per l’infanzia. Non sono un oratore di professione, ma soltanto un narratore di storie. Permettetemi dunque di inziare così, con una storiella del poeta tedesco Gustav Meyrink, o che forse ne è semplicemente il primo estensore in forma scritta.

 

C’era una volta un millepiedi che su una larga, liscia roccia, ad una precisa ora del giorno quando il sole spuntava,  si metteva a ballare. Da ogni parte gli altri animali accorrevano per vederlo, per vedere come descriveva volute e spirali con inimitabile leggiadria, tanto che il suo corpo brillava e scintillava quasi fosse formato di pietre preziose: era un piacere guardarlo e tutti gli animali ne lodavano l’arte e la grazia.  Il milllepiedi, comunque, non danzava per scuscitare ammirazione o in chi lo osservava. Anzi, a malapena si accorgeva della loro presenza, talmente imemrso era nella sua danza.

Ora, proprio lì nei pressi viveva, sotto la radice di un albero, un grosso e flaccido rospo, che non sopportava tutto quello che il millepiedi faceva. Non fosse altro perché era invidioso della sua grazia e della sua fama, oppure perché ce l’aveva con certe attività inutili come il ballo; fatto sta che  era ben intenzionato a rompergli le uova nel paniere, a quel millepiedi…

Certo, non era proprio una cosa facilissima, visto che non voleva incorrere nel biasimo e nei rimproveri degli altri animali. Così ci pensò un po’ su finché un giorno non gli balenò un’idea luminosa. Scrisse al millepiedi una lettera press’a poco del seguente tenore:

“O tu essere degno d’ogni lode, tu maestro della leggiadra arte della danza e delle più complesse volute e spirali. Io sono soltanto un povero rospo, viscido e umidiccio, e posseggo soltanto delle zampe goffe e impacciate. Per questo ammiro la maniera in cui riesci a muovere le tue mille zampe in queste meravigliose sequenze. Come mi piacerebbe imparare qualcosina da te! Per questo dimmi, meravigliosa creatura, quando tu inizi a danzare, parti da subito con la prima zampa a sinistra o con la novecentonovantanovesima a destra? O magari cominci con la millesima a sinistra e poi passi alla cinquecentoventitreesima a destra, per poi arrivare alla trentasettesima di sinistra e quindi alla settecentododicesima destra? O magari è tutto il contrario? Spiegami come esegui questa danza,  a me che sono un povero flaccido e umidiccio rospo che possiede solo quattro zampe, in modo che anch’io indegno animalaccio apprenda un po’ della tua grazia…”

Questa lettera il rospo la posò sulla pietra illuminata dal sole e non appena il millepiedi giunse lì per ballare, la trovò e si mise a leggerla.

Così cominciò a riflettere su come in effetti eseguiva la sua danza. Mosse prima una zampa poi un’altra e provò a ricordare come aveva fatto fino a quel giorno. E constatò che non era in grado di ricordarlo. Anzi, non riusciva proprio a rimettersi in moto. Rifletteva e ragionava, ragionava e muoveva qua e là titubante qualcuna delle sue mille zampe, ma danzare, quello no, proprio non gli riusciva più. Sì, quella danza era finita per sempre.”

 

Questa storiella, in realtà un apologo, serve a Ende non per tirarsi indietro dal compito di improvvisato conferenziere, ma per mettere subito l’accento sulla distanza tra la messa in opera di un qualsiasi talento creativo e la riflessione che su di esso si compie a posteriori. “Non sono bravo come il millepiedi – aggiunge – né scortese e maligno come il rospo, ma ogni volta che devo spifgare perché scrivo mi sembra di finire proprio come il nostro animaletto che no sa più prendere l’iniziativa”.

E a noi serve oggi per ragionare – non troppo ovviamente – su quella che è la prima scintilla della nostra partecipazione alla comunità dei lettori che dallo scrittore aspettano qualcosa, una comunità di uomini che ama o semplicemente si trova a fare i conti con quell’attività (inutile per i tanti rospi)  di raccontare o sentir raccontare qualcosa su ciò in cui si trova comunque immerso. Già, perché forse la vita da sola non ci basta?

Quando Michael Ende chiamò Branduardi al telefono (una storia vera…)

Pare sia andata proprio così: Angelo Branduardi seguendo il consiglio della moglie Luisa aveva appena letto, divorato e concluso la Storia Infinita, senza sapere neanche chi fosse quel signore indicato in copertina. Ma poi, come racconta in questa intervista, squillò il telefono e… guardate qui

 

 

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