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se esiste il senso della realtà deve esistere il senso della possibilità

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Kavanagh:in memoria del padre

Nel giorno dei defunti, questa lirica di Patrick Kavanagh, grande poeta irlandese, tratta dall’antologia ‘Andremo a rubare in cielo’ (Ancora editrice) che ho pubblicato un paio d’anni fa e che raccoglie una quarantina di poesie di questo artista così poco noto da noi.
Per chiunque abbia perso una persona cara, l’idea che il suo volto, i suoi modi di essere e di fare, la sua andatura siano rintracciabili da qualche parte nel mondo, anche in un incontro casuale, avvenuto per qualche fortuita coincidenza o per uno scherzo del caso

Ogni anziano che vedo

Mi ricorda mio padre

Quando si innamorò della morte

Al tempo in cui si raccoglieva il grano.

Ne vidi uno a Gardiner Street

mentre inciampava sul marciapiede,

mi diede una mezza occhiata:

avrei potuto essere suo figlio

E mi ricordo del musicista

Esitante sul suo violino

A Bayswater, Londra,

lui pure mi ha posto quell’enigma.

Ogni anziano che vedo

Nel tempo che ha i colori di ottobre

Sembra dirmi:

una volta fui tuo padre

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La penna e la vanga

Da Virgilio fino a Seamus Heaney ci sono versi, liriche o interi poemi in cui la poesia che muove dalla terra riesce a combinare profondità di speculazione e originalità di sguardo con un senso reale di vita vissuta a contatto con il suolo, con i suoi ritmi, le stagioni,  dando al lettore la certezza che quelle parole lì’ siano veramente segno di vita, di impegno, di conoscenza della materialità del lavoro, del sudore. Non c’è profumo d’Arcadia quando la penna è credibile quanto la vanga, perché la stessa mano l’ha incontrata, perché chi scrive ha vissuto la vita della terra. Un esempio nitido viene dai versi del grandissimo poeta irlandese Patrick Kavanagh che così conclude la poesia Inniskeen Road.

Le otto e mezza e non si vede nulla
Nel raggio di un miglio, neanche lo straccio di un’ombra
Che potrebbe mutarsi in un uomo o una donna, neanche
Un’orma a saggiare i segreti della pietra.
Qui possiedo tutto ciò che i poeti detestano in vece
Di quelle chiacchiere solenni di contemplazione (…)
Una strada, un regno che misura un miglio. E sono re
Di terrapieni, pietre e di ogni cosa che sboccia”

E il bello è che questa fedeltà agli elementi naturali, questa osmosi regale nulla toglie alla forza dell’immaginazione, della metafora: diventa la piattaforma da cui l’esecuzione verbale prende slancio e non si pone più limiti perché conserva la memoria della radice, del luogo di partenza.  Così ancora Kavanagh ne ‘L’uomo dietro all’erpice’

Ora lascia che si allentino le redini
I semi oggi volano lontano –
I semi come stelle contro la nera
Eternità del fango d’aprile.
Questo è un seme potente come il seme
Della conoscenza nel libro degli Ebrei.
Così guida i tuoi cavalli nel credo
Di Dio padre come un fascio di grano.
Dimentica gli uomini sulla collina di Brady.
Dimentica ciò che il garzone di Brady potrà mai dire
Perché il destino non si compierà
finché non lasci che l”erpice vada.

 

La lettura di un evento ricorrente e in fondo semplice scagliata sullo sfondo biblico che rende ogni gesto gravido si significati è assolutamente immediata, plausibile, vigorosa.

Nessuna poesia però più di Digging, opera d’esordio programmatico di Seamus Heaney, rende questi concetti, argomenta e spiega credibilmente questa immedesimazione tra il lavoro dell’artista e quello di chi lavora la terra. Universi recisi da una certa idea urbana, intellettualistica di cultura, ma tra i quali non è così difficile andare e venire ; basta aver messo piede in un campo, aver seminato un orto, aver preso in mano gli strumenti antichi del lavoro della terra, anche solo una volta.

 

Quatta quatta con il colpo in canna
Fra medio e pollice sta la penna.
Sotto la finestra un raspo netto all’internarsi
Della vanga nel terreno ghiaioso:
È mio padre che dissoda. Guardo in basso,
Finché sotto sforzo, a groppa curva
Sulle aiuole, torna venti anni indietro
Piegandosi a tempo per i solchi
Di patate che vangava.
A posto sul vangile lo scarpone,
Saldo fulcro del manico il ginocchio,
Cavava gambi, ficcava a fondo la lucente lama
Per spargere patate nuove che noi raccattavamo
Adorandone fresca la durezza nella mano.
Per Dio, il vecchio ci sapeva fare
Con la vanga. Come il suo vecchio.

Mio nonno in una giornata tagliava più torba
Di chiunque altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai il latte in una bottiglia
Sciattamente turata con la carta.
Si raddrizzò per bere e subito riprese
Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle
Dietro le spalle, sempre più a fondo
A cercare quella buona. Scavando.
Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco
Da torba in guazzo, secco taglio della lama
Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.
Fra medio e pollice
Quatta quatta sta la penna.
Sarà la mia vanga.

Da: La musica è altrove. Gli anni ’90 di Branduardi

Dal punto di vista della produzione più squisitamente creativa gli anni Novanta non sono tra i più memorabili per Branduardi. Nel’93 pubblica Si può fare, disco in cui idealmente l’artista lombardo risale il Continente fino al Canada con due ospiti d’eccellenza: Jorma Kaukonen, chitarrista bluegrass di grande istinto melodico, e Zachary Richards, polistrumentista e virtuoso dell’akkordeon, un tipo particolare di fisarmonica simbolo della musica cajun, propria degli abitanti di origine francese della Louisiana. I due musicisti conferiscono una sonorità particolarissima al disco, in cui Branduardi ricorre a una gran quantità di chitarre acustiche ed elettriche, scegliendo per gli arrangiamenti d’orchestra Vince Tempera, musicista noto al grande pubblico più che altro per le sigle dei cartoni animati giapponesi degli anni Ottanta. Sono poche le tracce degne di nota. La stessa title track, accattivante nella melodia che riprende inizialmente un brano barocco, è arrangiata e strutturata in maniera poco convincente. Più significative sono invece la bellissima Indiani, lavorata su un originale britannico – The Plains of Waterloo, suonata anche dal grande John Renbourn – ma di sapore fortemente tribale, con due chitarre elettriche che si rimpallano la melodia su un ostinato di percussioni; Cambia il vento cambia il tempo, ariosa e filante sull’accompagnamento di Branduardi e Kaukonen; Noi come fiumi, una lenta ballata in stile ultima ora di balera americana anni Sessanta, impreziosita dalle amatissime quinte diminuite nella struttura armonica. L’anno dopo con Domenica e lunedì Branduardi entra a piedi pari in atmosfere dichiaratamente «pop» con un disco che, per quanto dedicato fin dalla title track al poeta Franco Fortini, ricorre a composizioni più facili e orecchiabili e si basa prevalentemente su un quartetto che lo accompagnerà in tournée fino al ’97, ma che è ben lontano dagli esiti e dallo spessore artistico del periodo «yeatsiano». Ne fanno parte, oltre al redivivo Maurizio Fabrizio, Ellade Bandini, leggendario batterista del mondo cantautorale italiano, e Claudio Guidetti al basso, allo stick e alla seconda chitarra ritmica. Il risultato però, nonostante la consueta facilità immaginativa di Maurizio Fabrizio e la tecnica di Bandini, resta piuttosto monocorde. Da ricordare anche che mai come in questo disco Branduardi ricorre a parolieri esterni: Fou de love, seconda traccia del disco, è un fantasmagorico pastiche linguistico di Pasquale Panella, già autore dei testi dell’ultimo Battisti, che declina la passione amorosa in sette lingue tra antiche e moderne; Giovanna d’Arco e La ragazza e l’eremita sono scritte dalla poetessa Paola Pallottino; la mediocre C’è una sala in Paradiso è dovuta alla penna più che mai new age di Eugenio Finardi, che rispolvera alquanto banalizzato il mito platonico sulla divisione alla nascita delle due anime che si cercano poi per tutta la vita. Ben diverso è il risultato de Il trionfo di Bacco e Arianna, celeberrima lirica di Lorenzo de’ Medici, sicuramente la canzone più riuscita del disco assieme a Domenica e lunedì. Musicando il Magnifico, Branduardi inventa una melodia scarna e quasi avvitata attorno a poche note in lievi saliscendi, perfetta nel rendere la malinconia di fondo di un piacere che si risolve in se stesso, precario e che pare continuamente negato dall’incombere dell’incertezza del domani. Splendido l’uso del flicorno con sordina che non solo aggiunge una nota di mestizia, ma dà l’idea di un sentimento che non riesce a librarsi, soffocato da quel finale ricorrente a ogni stanza come una campana a morto, «del doman non c’è certezza», che Branduardi rende musicalmente con una cadenza squisitamente ambigua. Lo stesso discorso si può fare per Domenica e lunedì, analoga per ispirazione: qui la musica è molto più cantabile e il tono elegiaco di fondo che è evidentissimo resta però di una pensosità serena, alla fine lieta.

La Musica è altrove in TV

Certo, il libro gioca in casa, perché mercoledì 11 luglio attorno alle ore 10.00 si parlerà di Angelo Branduardi nello spazio estivo ‘Nel cuore dell’estate’, il contenitore quotidiano di Tv2000 dove il sottoscritto lavora. Per l’occasione presenteremo la Musica è altrove e riproporremo un’intervista ad Angelo Branduardi in cui il musicista lombardo parla di letteratura e dei suoi autori preferiti in una puntata incentrata peraltro sul  rapporto tra poesia e vita con numerosi altri spunti di interesse come un approfondimento dedicato ad Alda Merini.

La storia del Ciliegio

Un estratto dal libro La Musica è altrove dedicato a una delle canzoni più amate di Angelo Branduardi

Il Ciligio è la versione, decisamente branduardiana, della Cherry Tree Carol, una ballata molto diffusa nelle isole britanniche ma codificata in forma scritta solo nei primi decenni dell’800 secondo quanto riportato nella celebre edizione ad opera di Francis James Child delle English and Scottish Popular Ballads che lo studioso pubblicò in cinque volumi a Boston nel 1898 a coronamento di sedici anni di ricerche.

Ballata è comunque un termine piuttosto vago e generico, riferito com’è  a un’enorme mole di componimenti spalmati su oltre mezzo millennio, dal Tredicesimo al diciannovesimo secolo. Pensate per essere accompagnate dalla musica e caratterizzate da metrica e rime molto elementari, le “ballate” sono di argomento storico, religioso o fiabesco, possono raccontare indifferentemente le gesta di santi o principi, di servi, cortigiane perfino di Robin Hood, servendosi di immagini vivide, a volte bozzettistiche, con passaggi bruschi che trasportano chi ascolta direttamente al cuore dell’evento senza soffermarsi troppo sui particolari.
Sono come i quadri dei cantastorie del Meridione d’Italia, predisposti per il racconto che si trasmette oralmente in versioni spesso differenti e improvvisate o adattate al pubblico del momento. Quello che interessa non è lo sviluppo, ma l’esempio che di può trarre dalla storia, che proprio per questo contiene momenti favolosi, improbabili, esalta sentimenti radicali o mutevoli, comunque intensi, privi di sfumature, esemplari appunto per chi ascolta, prototipi del meglio e del peggio di cui l’uomo è capace.

Il ciliegio rientra perfettamente in questa tipologia. Ispirata a un episodio narrato nel Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo, la ballata ha come protagonista un anziano San Giuseppe – “era anziano, lo era davvero” sottolinea in apertura il testo – ritratto nel momento di prendere in sposa la Vergine Maria, “regina di Galilea”. Poi, però, immediatamente la scena si sposta in un frutteto dove la coppia cammina sotto alberi di ciliegie “rosse come il sangue”. Candidamente  Maria chiede a Giuseppe di coglierle delle ciliegie perché è incinta. Lei gli si rivolge con tono“mite e dolce”sottolinea il testo mentre Giuseppe è (ovviamente) scortesissimo “Fatti cogliere le ciliegie da chi ti ha reso incinta”. Nel grembo della mamma allora Gesù ordina che l’albero più alto si pieghi “perché sua madre ne possa avere un po’”. Quando ciò avviene Maria grida compiaciuta e forse anche un po’ infigarduccia “Vedi Giuseppe ne ho quante ne voglio!”   Al povero falegname non rimane che registrare il miracolo ammettere il proprio torto invitando la propria sposa a “rallegrarsi” di quanto avvenuto, usando cioè proprio il termine che nel vangelo è attribuito a Elisabetta.
Maria porta così a casa “un pesante carico di ciliegie” ma poi con un nuovo salto nel tempo, stavolta ancora più lungo, la vediamo col piccolo Gesù che sulle sue ginocchia profetizza la propria morte “che anche le pietre piangeranno” e la propria resurrezione che avverrà assieme “al sole e alla luna”
E’ questa la versione che segue Joan Baez, autrice di una propria versione molto più ristretta ma che sfrutta il lessico e le immagini originali, nonché una metrica molto somigliante

Nell’originale dell’apocrifo, per dirne ancora una, la pianta che si china a terra è una palma; curiosamente nella tradizione catalana l’albero è invece un melo.
Al di là delle implicazioni geografiche e climatiche le scelte del trovatore britannico sono sicuramente segno di una mentalità più abituataa lavorare sui simboli sottolineando in due chiari passaggi la relazione tra il rosso del frutto e quello del Sangue, anticipando così il senso della passione di Cristo che dona il suo sangue così come un tempo ha fatto dono del frutto rosso a sua Madre.

Anche Yeats, a testimonianza della vitalità di questa ballata nella cultura delle isole britanniche, dice la sua su questo apocrifo miracolo “che pur non trovandosi nella Bibbia, è conseguenza naturale dell’Incarnazione. Quando Giuseppe esprime quel dubbio che anche la Bibbia gli mette in bocca, il Creatore del mondo, divenuto già carne, ordina dal grembo della vergine e la sua creazione gli obbedisce. C’è tutto il mistero, Dio, nell’indegnità della sua nascita umana…e tutto ciò è detto in una filastrocca antica ma che pure ha una sua logica matematica”.

Mistero che Branduardi accoglie e se possibile potenzia togliendo alla vicenda i riferimenti puntuali e ponendo i protagonisti in uno spazio e tempo indistinti dove l’unico riferimento è quello della metafora. Il protagonista “vecchio e stanco” narrando in prima persona si paragona a un giardiniere mentre la vergine diventa l’ultimo fiore cui non può rinunciare al sopraggiungere dell’inverno.
Le pareti della storia sono crollate, lo spazio fisico è dilatato e il tempo delimitato solo dalle frontiere opache e remote della vecchiaia e dell’inverno: la stagione lunga e oscura così apertamente in contrasto con la bellezza fragrante della giovane sposa “la più bella che avessi visto mai”. Un superlativo che aggiunge ulteriore eccezionalità al presentarsi della storia. C’è anche dell’altra gente, appena nominata però e nascosta che rimane sullo sfondo a sorridere della passione di questo vecchio per la fanciulla. Poi accade il fatto

anche il mio ciliegio a suo tempo maturò
lei venne un mattino a chiedermene i frutti
“devo avere quelle ciliegie
perché presto un figlio avrò”

Io guardavo le sue guance più bella era che mai
e sentivo dentro me già crescere la rabbia
“chiedi al padre di tuo figlio
di raccoglierle per te”

Anche nella versione di Branduardi la donna reagisce con dolcezza , si volta “sorridendo come sempre” a guardare l’albero che però qui obbedisce immediatamente a un invito silenzioso, senza che né madre né figlio prendano la parola

Fu il ramo suo più alto che il ciliegio chinò
ed il padre di suo figlio così l’accontentò

Quando l’uomo/Giuseppe pensa tra sé queste parole, la sua rabbia è già sedata nella contemplazione del miracolo la cui evidenza è talmente chiara da non necessitare altro e infatti la canzone si conclude con la stessa strofa con la quale era iniziata, come se ad ogni esecuzione potesse ricominciare in una sorta di “miracolo perpetuo”

Già ero vecchio e stanco per prenderla con me
ma il vecchio giardiniere rinunciare come può
all’ultimo suo fiore
se l’inverno viene già

L’espediente della circolarità contribuisce a rafforzare l’idea di una vicenda esemplare proiettata nell’infinito, nel campo ultraterreno del simbolo, alla quale si deve guardare prestando la fede immediata del bambino che non si stupisce di fronte a una stranezza che accade in maniera così ovvia e appunto naturale.
La mancanza dei dati e dei riferimenti ai singoli personaggi se quindi pare togliere concretezza alla storia ne accresce il potere evocativo facendo sì che la mente di chi ascolta si attivi in prima persona per interpretare e decifrarne il senso, per mettere a posto tutti i tasselli fino a risalire alla sacralità misteriosa dell’evento

Ancora una volta Branduardi non impone una lettura propria, né un messaggio, né semplicemente tramanda una storia fissata così com’è una volta per tutte; preferisce che sia il destinatario a completare l’opera: l’autore ampliato, come lo definiva, al principio dell’800, Novalis, il grande poeta e teorico del romanticismo tedesco.

 

Da La Musica è altrove: l’amico cane

L’animale che ha più “presenze” in questo immaginario dell’artista lombardo è sicuramente il cane. Lo abbiamo visto tra i gradini più bassi de Alla Fiera dell’Est e come amico della nascitura Sarah, ma un cameo delicato e pietoso ce l’ha anche nella canzone-programma di Angelo Branduardi “Confessioni di un malndrino”: qui è vecchio e si aggira a coda bassa nel cortile senza più notare cosa accade intorno anche se il poeta in un flashback lo ricorda quando da bambino con lui spartiva il pane “ e si mangiava come due fratelli”.
E’ sempre figura di calore e fremito di vita, il cane. Una vitalità a volte manifesta, altre semplicemente intuita, come ne Il Signore di Baux dove il testo riprendendo una suggestione del poeta latino Lucrezio riporta i gemiti dei quadrupedi dormienti immaginandone sogni di caccia. Più urbana e quotidiana è la figura canina che accompagna l’artista nella splendida Cambia il vento, cambia il tempo, di fatto una passeggiata in periferia in un crepuscolo nebbioso, in cui l’animale si limita a riportare i sassi che il padrone scaglia per incitarlo alla corsa; ma anche qui si percepisce un rpporto di serena intimità tra uomo e bestia. Inquietante può essere invece il ricordo dell’ animale smarrito come ne Il tempo di partire, in cui due amici si mettono in cammino ripercorrendo una strada che conduce fino a un luogo dove un giorno l’animale inspiegabilmente si perse

(…) io ti accompagnerò
Ritorneremo insieme
laddove un tempo hai perso il tuo cane
con te seguirò le sue tracce
fino a quel sentiero
che temevi già da bambino
ed insieme avremo paura

Canzone canina è invece l’altra poesia di Esenin che Branduardi ha avuto nella mente per molti anni prima di trovare la melodia adeguata. Il momento è venuto nel 1981 con il disco Angelo Branduardi particlarmente adatto per trovare casa al testo considerando la sua strumentazione sobria ed essenziale e le atmosfere rigorose ma più rarefatte. Così si arriva a “La Cagna”, terzo brano dell’album introdotto da una chitarre classica dal suono limpidissimo e quasi metallico con un accordo di Re maggiore alterato e minimi interventi di fiati. La storia è quella di un evento comune in campagna quando il contadino decide di sopprimere i cuccioli nati da un parto troppo numeroso. Solo che la bestia non capisce questa logica a dopo aver allattato i suoi “cuccioli d’oro” rimane immobile a vegliarne i corpicini annegati nello stagno gelato

Scese la notte ed il ghaccio richiuse
Nell’acqua nera sette cuccioli d‘oro
Sopra lo stagno la luna guardava
La cagna bianca che non capiva

Ancora una volta la luna sormonta un ritratto di innocenza assoluta: lo si percepisce immediatamente nel candore dell’animale. Immobile, inerme a contemplare quella sciagura che per la logica del mondo è invece poco più di una procedura automatica, un evento normale per preservare certi equilibri alimentari nella tenuta di campagna. Il poeta, e assieme a lui la musica sembrano non prendere parte e ci consegnano un quadro delicato ma scabro, privo di qualsiasi concessione sententalistica. Resta però, più lancinante di un’accusa, più espressivo di una serie di aggettivi lacrimevoli lo schianto e il contrasto tra i colori: il nero dell’acqua come l’anima dell’assassino e l’oro splendente delle vite trucidate innocenti ma ancora preziose da guardare per chi le ha generate.
La cagna rappresenta un punto d’arrivo nel tratteggiare il rapporto tra la poetica branduardiana e il mondo animale: da simbolo a compagno di viaggio che qui condivide con dignità e pudore assoluti il dolore di fronte alla crudezza del mondo.

Una bellissima recensione de La musica è altrove

Un lavoro sulla musica e la poetica di Angelo Branduardi ha come prima ambizione quella della condivisione di idee, emozioni, sguardi che solo un certo tipo di musica riesce a suscitare. Condividerle e presentarle anche con il desiderio di coinvolgere chi magari questo mondo di fantasia, immaginazione e confronto con la realtà non lo avesser ancora sperimentatao.

Ecco allora che mi piace segnalare questa splendida (quasi imbarazzante) recensione realizzata da Giuditta Casale, ideatrice e animatrice del bellissimo sito tempoxme_Libri. Lei che tra l’altro è pressoché neofita della produizione del nostro menestrello. Leggere per credere

Da Schnitzler a Salinger: fonti inattese di Angelo Branduardi

Per un lettore curioso e onnivoro come Branduardi gli spunti per una canzone possono giungere anche da innamoramenti casuali, incroci inattesi con sensibilità affini o semplicemente immagini regalate alla storia della letteratura da poeti che poi magari sono noti al grande pubblico solo per quei versi particolari.
Walther von der Vogelweide è uno di questi. Certo, è un nome che potrebbe tornare utile se state giocando a qualcosa tipo trivial pursuit e volete far cadere l’avversario, a meno che non sia un germanista specializzato in medievistica. Questo poeta, un “minnesaenger”, specie di trovatore errante, nato non si sa bene dove tra alto Adige e Tirolo nella seconda metà del dodicesimo secolo, era un giramondo del mondo allora più glamour, cioè le corti e i castelli di principi, vescovi e feudatari. Attese fino all’età di 50 anni per avere un suo feudo dopo aver poetato presso numerosi signori senza rinunciare all’occorrenza a vigorose e quasi dantesche invettive politiche. Primo vero poeta tedesco come lo definiscono i germanisti Walther fu anche autentico poeta d’amore superando le ambiguità delle convenzioni del corteggiamento e dell’omaggio di corte a nobildonne irraggiungibili per cantare un sentimento vero, profondo di condivisione con la persona amata. Ecco perché non ha timore di uscire dal castello per raccontare un amore campestre, lieto, giocoso ma autentico nel comunicarsi a tutta la natura, nel coinvolgere alberi, fiori ed erba. Così nasce Sotto il tiglio
Sotto il tiglio
nella landa,
dove era il nostro giaciglio,
là potrete ancora vedere
belli assieme
fiori spezzati ed erba.
Davanti al bosco, in una valle,
trallallà,
così bene cantava l’usignolo.
Arrivai fino al prato
là era anche venuto il mio amore.
E là venni accolta
così felicemente come donna
che me ne sento ancora beata.
Mi baciò? Oh, per mille volte!
trallallà
Guardate com’è rossa la mia bocca!
Là egli aveva costruito,
così ricco
di fiori, un giaciglio.
Riderà di cuore
Tra sé
chi passi per quello stesso sentiero.
Presso le rose potrà vedere
trallàllà
dove giaceva il mio capo.
Che lui giacque con me,
se qualcuno ne venisse a conoscenza
(non voglia così Dio)
ne avrei vergogna.
E nessuno sappia mai
quello che si curò di fare con me,
a parte io e lui
e un piccolo uccellino
trallallà
che certamente sarà fedele.

Pur mantendeno la stessa freschezza e la musicalità ingenua dell’originale Branduardi cambia completamente il finale nonché il punto di vista del racconto che in Walther è maliziosamente affidato alla memoria di lei, tra vergogna e desiderio inconfessato di svelare melio l’accaduto. Aggiunge anche il motivo del cosiddetto nodo d’amore: due piante che si intrecciano a testimoniare il legame tra gli amanti che qui però viene improvvisamente rescisso
Sotto il tiglio, là nella landa/ la radica si abbraccia al giglio/ voi che passate potrete vedere/come son cresciuti ibnsieme/lei con me rimase solo un anno/ma con l’oro poi intrecciò le chiome/e se ne andò e amavo uno sparviero/in alto si levò e volò via.
Il distacco doloroso produce la conclusione sentenziosa della canzone in cui Branduardi medita sulla precarietà degli affetti, della vita e del mondo che “come vento e nube fugge via”, in un disco come Alla Fiera dell’Est che pur pullulando di timbri e colori è profondamente malinconico e consapevole della presenza incancellabile del dolore.
Ne La Pulce d’acqua come ultima traccia figura la bella dama senza pietà, capolavoro di John Keats, poeta romantico inglese morto a Roma nel 1821, animo colto e sensibile in un corpo minato dalla tisi, che in questa lirica esalta il potere incantatorio di una donna misteriosa che ruba a un cavaliere l’anima e con essa la vita riducendolo, dopo averlo sedotto, a un’esistenza errante e larvale.
Si tratta del classico motivo romantico dell’attrazione per l’oscurità e l’incognito, per quella parte del reale che sfugge alla ragione e che può tradursi in incanto e adempimento dei desideri del cuore oppure nello smarrimento e nella perdita del proprio Io.
Al limite del monte io mi addormentai/fu l’ultimo mio sogno che allora sognai/ed erano in mille e mille di più(…) erano in mille e mille di più/con pallide labbra dicevano a me/quella che anche a te la vita rubò/è lei la bella dama senza pietà.
Qui Branduardi evoca un’atmosfera misteriosa e lugubre grazie al suono sinuoso e lamentoso del sitar, strumento indiano molto in voga nel rock progressivo, e lascia agli archi il compito di spezzare la canzone con tre successivi interventi di grande vigore espressivo. Il destino del protagonista resta sospeso in un limbo dove ogni presenza è angosciante: così la canzone si conclude con l’ultimo intervento sinistro del sitar.
Due allusioni ai classici si ritrovano nel disco Cogli la prima mela, a ulteriore conferma dell’ampiezza di interessi della coppia Branduardi-Zappa; anzitutto ne la Raccolta dove si fa riferimento al frammento numero della poetessa greca Saffo che a proposito di una donna nubile si esprime con questa metafora
Come la mela sul ramo più alto/la dimenticarono i raccoglitori/anzi, non poterono ragiungerla,
che nella canzone diventa
Sei la spiga più bella che hanno scordato di tagliare/sei la mela più alta che nessuno mai raggiungerà./Passato è il tempo della Raccolta/la calda estate è finita di già/ e cutriosa ancora tu/aspeti chi ti coglierà
Mentre i cani del Signore di Baux che “gemon nel sonno/sognando della caccia” rimandano al De rerum natura del poeta latino Lucrezio che nel secondo libro del poema affrontando il tema del sogno si sofferma anche su alcuni animali:
Vedrai infatti forti cavalli, le cui membra giaceranno distese,
tuttavia irrorarsi di sudore nel sonno e ansar senza posa
e tender le forze all’estremo, quasi fossero in gara per la vittoria (…)
E spesso i cani dei cacciatori, pur mollemente addormentati,
tuttavia dimenano d’improvviso le zampe e emettono d’un tratto
latrati e aspirano frequentemente con le nari l’aria,
come se avessero scoperto tracce di fiere e le seguissero (…)
Ma la carezzevole prole dei cuccioli, avvezza a vita domestica,
in fretta scuote via e solleva da terra il corpo,
quasiché vedesse figure e facce ignote.
E quanto più una razza è feroce,
tanto più nel sonno essa deve infuriare.

L’immagine è di tale impatto che se ne è ricordata anche Doris Lessing, Nobel per la letteratura nel 1997. Nella sua autobiografia la scrittrice richiama direttamente il testo lucreziano
“Come i cani che se ne stavano lunghi distesi a guaire e uggiolare di eccitazione ogni volta che sognavano di dare l caccia a una lepre o un coniglio”
Una cucciolata di cani, come abbiamo visto, è protagonista de la Canzone canina di Esenin, che Branduardi ha musicato col titolo “La Cagna”
Alle fiabe, antiche o moderne, popolari o colte Branuardi fa spesso l’occhiolino. Barbablu diventa una specie di contrasto tra voce maschile e femminile nell’Album Pane e Rose, il Gufo e il pavone (anche questa canzone è in Cogli la prima mela) è anche un’opposizione foret tra figure simbolicamente distantissime, tra il fascino variopinto e solare del pavone e la upezza notturna del gufo. Le due figure sono spesso citate assieme, al museo Bargello di Bologna figurano nello steso gruppo scultoreo realizzato dal Giambologna
Un riferimento forse più inatteso è quello all’interno della canzone Il Disgelo perché la voce narrante che si prepara al viaggio e confida di aver visto già “le anatre tornare” ricorda molto da vicino il giovane holden che per ben tre volte (nei capitoli 9 e 12) nell’omonimo romanzo di Salinger si chiede dove vadano a finire le anatre del central park in inverno quando il loro habitat è tutto ghiacciato. Ma il ghiaccio nella canzone di Branduardi non è più neanche un ostacolo perché il protagonista addirittura offre all’amata una nave di ghiaccio pur di navigare asieme e lontano
Casanova, ispirata al romanzo del narratore autriaco Arthur Schnitzler, è una malinconica meditazione sul tempo che inevitabilmente si porta via la giovinezza così come, Il trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico, una delle (poche) punte di diamante del disco Domenica e Lunedì.
A volte il riferimento letterario non viene reso esplicito ma rimane nell’atmosfera, come la ‘bukovskiana’ ‘Il bambino dei topi’.

Branduardi e i…classici

Musicando il Notturno di Alcmane, poeta greco del VII secolo avanti Cristo, Angelo Branduardi ha iniziato una lunga personale carriera di frequentazione con testi della classicità greco-latina (certo, Alcmane appartiene a un periodo preclassico, obietteranno i grecisti, ma ci prendiamo la libertà di inserirlo in quel retaggio che l’istruzione liceale ha reso compatto e unitario per legioni di studenti) . Tra le altre spiccano queste due allusioni,  citate nel libro La Musica è altrove

Due allusioni ai classici si ritrovano nel disco Cogli la prima mela, a ulteriore conferma dell’ampiezza di interessi della coppia Branduardi-Zappa; anzitutto ne la Raccolta dove si fa riferimento a  un  frammento  della poetessa greca Saffo che a proposito di una donna nubile si esprime con questa metafora

Come la mela sul ramo più alto/la dimenticarono i raccoglitori/anzi, non poterono ragiungerla,

che nella canzone diventa

Sei la spiga più bella che hanno scordato di tagliare/sei la mela più alta che nessuno mai raggiungerà./Passato è il tempo della Raccolta/la calda estate è finita di già/ e cutriosa ancora tu/aspeti chi ti coglierà

Mentre i cani del Signore di Baux che “gemon nel sonno/sognando della caccia” rimandano al De rerum natura del poeta latino Lucrezio che nel secondo libro del poema affrontando il tema del sogno si sofferma anche su alcuni animali:

Vedrai infatti forti cavalli, le cui membra giaceranno distese,

tuttavia irrorarsi di sudore nel sonno e ansar senza posa

e tender le forze all’estremo, quasi fossero in gara per la vittoria (…)

E spesso i cani dei cacciatori, pur mollemente addormentati,

tuttavia dimenano d’improvviso le zampe e emettono d’un tratto

latrati e aspirano frequentemente con le nari l’aria,

come se avessero scoperto tracce di fiere e le seguissero (…)

Ma la carezzevole prole dei cuccioli, avvezza a vita domestica,

in fretta scuote via e solleva da terra il corpo,

quasiché vedesse figure e facce ignote.

E quanto più una razza è feroce,

tanto più nel sonno essa deve infuriare.

L’immagine è di tale impatto che se ne è ricordata anche Doris Lessing, Nobel per la letteratura nel 1997. Nella sua autobiografia la scrittrice richiama direttamente il testo lucreziano

“Come i cani che se ne stavano lunghi distesi a guaire e uggiolare di eccitazione ogni volta che sognavano di dare l caccia a una lepre o un coniglio”

Una cucciolata di cani, come abbiamo visto, è protagonista de la Canzone canina di Esenin, che Branduardi ha musicato col titolo “La Cagna”

Ogni caso

Dice Wyszlawa Szymborska: Poteva accadere/doveva accadere/E’ accaduto prima. Dopo./ Più vicino. Più lontano./ E’ accaduto non a te./(…) Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?/ La rete aveva solo un buco, e tu proprio da li?/ Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo./ Ascolta/come mi batte forte il tuo cuore.

La poesia si intitola ‘Ogni caso’. Una fila di ossimori che camminano in fila indiana. Piccoli ma tenaci come formiche. E il poeta guarda. Guarda l’attimo. Non può non attestare che quella cosa è andata così, ma poteva essere diversamente. Occorre conservare il come anche se non si sa il perché. Ma il come è un’incarnazione. Che possiamo solo osservare. E per vincere le contraddizioni meditarlo quel come. La poesia nasce proprio dalla selezione di quella cosa che poteva essere altra ma è andata così. La poesia attesta questo anche se è libera di  immaginare e dire l’opposto. Prova a completare, sapendo che non completerà mai. Ma esiste per farlo

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