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se esiste il senso della realtà deve esistere il senso della possibilità

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Tolkien e l’Oxford English Dictionary 1/ Dopo la guerra

Al termine della prima Guerra Mondiale molti reduci e molti uomini di pensiero tra di loro continuarono a pagare un dazio irrisarcibile all’orrore conosciuto sul campo di battaglia e spartito magari con amici caduti, sfigurati o menomati a vita. Umanamente il tempo si era come rappreso, condensato in attimi mai più cancellabili. La maggior parte di loro impiegò anni, tempo fisico e psicologico, memoria e parole a vivisezionare l’orrore delle trincee, rimpiangere il mondo di ieri, a spiegare in tono dolente come nulla sarebbe più stato come prima. Ne scaturì un’età di incertezze, dilemmi, inquietudini furori malcelati e sensi di colpa. L’occhio che aveva contemplato l’abisso, si disse ma lo si dirà più volte in seguito, non avrebbe avuto più la luce interiore sufficiente per guardare ad altro.

Una mattina di ottobre del 1918 un ex soldato al momento disoccupato guardava con un misto di entusiasmo e trepidazione i busti in cima alle colonne basse che vegliano la scala che conduce all’interno dell’Old Ashmolean Building ad Oxford. In una mattina grigia e svogliata quelle faccione di classicità decrepita avevano il sorriso delle cose nuove, di un’avventura che iniziava proprio lì, in quelle strade spesso percorse da studente, insieme a una frotta spensierata di coetanei ignari di essere futura carne da macello nel fango della Somme.

La guerra ora sembrava come una storia vissuta ma lontana, alimento dell’esperienza ma parentesi, una pagina scritta per lo più da altri, dove il proprio nome era come una di quelle note scritte in un corpo talmente piccolo da poter essere ignorate. C’era dentro tutti quei fatti lì una portata inestirpabile di verità però, una verità di dolore che in lui rimaneva pur non riuscendo a diventare direttamente letteratura. C’era il rispetto dei morti, il rispetto degli amici. Quella verità di tanti uomini e delle loro speranze di vita, azzerate dalla follia ,altrui doveva comunque essere preservata, isolata, custodita, rinverdita e tramandata. Per cui di fronte a quella scala Tolkien sentiva anzitutto la spinta a dire che l’uomo non era solo quell’ammasso di carni, eroi e traditori, carnefici, disertori e pusillanimi. L’uomo poteva essere altro, contenere e raccontare altro. Aveva ancora modi per ri-dire humanitas come avevano fatto quelle statue quando anch’essere erano state uomini. Non poteva però dirlo senza partire da quell’unità che per lui significava tutto:

 

John Ronald Reuel Tolkien aveva studiato a Oxford all’Exeter College dal 1911 al 1915 sotto la guida di due dei più illustri linguisti e lessicografi dell’epoca: Joseph Wright, professore di filologia comparata e compilatore dell’English Dialect Dictionary, e William Craigie, docente di Antico Nordico e soprattutto redattore dell’English Oxford Dictionary, il monumentale vocabolario della lingua inglese, un’autentica istituzione, di autorevolezza e fama pari al Meridiano di Greenwich o, nel suo campo, al torneo di Wimbledon.

Proprio William Craigie, memore delle qualità dell’allievo, aveva proposto a Tolkien di entrare a far parte dello staff che stava curando la prima edizione dell’opera, il cui avvio  risaliva addirittura al 1857, ma che in quei sessanta anni era proceduta a rilento, avvicendando i curatori e impiegando decine di assistenti col compito di inseguire tra i testi la vita di un’infinità di voci, registrandone usi, variazioni, particolarità, eccezioni.

Decine di assistenti, il lavoro di una vita, una vita segnata da codici, volumi, repertori, manoscritti e prime edizioni a stampa, una vita di carta e carte.

Attraverso le fotografie possiamo entrare ancora oggi nell’atmosfera della Dictionary Room, severa e ascetica come un luogo di culto. Soffitti alti almeno una decina di metri, colonne doriche, essenziali, niente fronzoli. Scaffali sistemati contro una delle pareti laterali e poi scrivanie dovunque, quelle dal lato della finestra con un piano inclinato a raccogliere la luce sui  volumi aperti in bella vista. Gli uomini all’interno come sacerdoti officianti. Giacca e cravatta immancabile, toni di grigio, fumo di Londra, occhiali e barbe. Un parlare rarefatto.

All’epoca, ma nulla sarebbe mutato fino  agli anni ’80 i lessicografi dell’Oed lavoravano su cartoncini larghi quattro pollici e lunghi sei dove appuntavano significati, citazioni ed etimologie. I cartoncini successivamente impilati in ordine diventavano i ma veri e propri mattoni per la costruzione delle voci del dizionario.

L’Oxford English Dictionary non è semplicemente il dizionario più autorevole del mondo, ma è, come spiega l’attuale direttore della titanica impresa, la testimonianza di una smisurata ambizione, quella cioè di registrare tutte le voci in uso nella lingua inglese, dalle più attuali a quelle obsolete. James Murray, colui che alla fine dell’800 riavviò l’impresa diceva non senza una buona dose di orgoglio patrio

Il Dizionario inglese, come la Costituzione inglese, non è la creazione di un singolo, né di un’età in particolare, è una crescita che si è lentamente sviluppata lungo le diverse epoche

Ed è una crescita che oggi viene registrata in maniera ancora più capillare grazie ai motori di ricerca. L’attrezzatissimo robot dell’Oxford English Corpus va inarrestabilmente in giro per cyberspazio a reperire materiale di qualsivoglia genere in lingua inglese per accrescere il patrimonio di citazioni, usi e variazioni che a tutt’oggi ammonta a quasi un miliardo e mezzo di parole.

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La torre dove non osano i critici

In un celebre saggio sul Beowulf, il famoso poema epico in inglese antico, Tolkien contravvenne ad una delle sue massime di vita e scrisse un’allegoria, lui che cordialmente le detestava. Ma detestava molto di più chi fa a pezzi un’opera d’arte perdendone il senso di insieme per andare a caccia di particolari irrilevanti, componenti ed elementi che appartengono più alle interpretazioni che al senso di ciò che si sta analizzando. Perché un’opera letteraria deve parlare come dal futuro. Deve esser studiata certamente nei suoi elementi ma per metterne in luce la capacità progressiva, di ampliare lo sguardo del lettore e dire solo a lui qualcosa di sé che ancora non sapeva. Qui si incontrano filologi (che studiano la parola per liberarne i sensi profondi e produttivi) e fruitori (che quelle parole accolgono per piacere godimento estetico). E da qui si può guardare avanti, dove c’è per Tolkien il mare. Ecco la sua riflessione

Un uomo ereditò un campo in cui si ergeva un cumulo di vecchie pietre, parte di un antico edificio. Alcune di queste pietre erano già state usate per costruire la casa in cui egli viveva, non lontano dall’antica dimora dei suoi padri.
Delle restanti, egli ne prese una parte per costruire una torre. Ma i suoi amici si accorsero a un certo punto (e senza preoccuparsi di salire le scale) che queste pietre in precedenza erano state parte di un edificio più antico.
Così essi gettarono la torre a terra, non senza fatica, per cercare incisioni e iscrizioni nascoste, o per scoprire da dove i remoti antenati dell’uomo si erano procurati il materiale da costruzione. Alcuni, sospettando l’esistenza di un deposito sotterraneo di carbone, cominciarono a scavare per cercarlo, dimenticando anche le pietre.
Tutti quanti dicevano: «La torre è estremamente interessante». Ma dicevano anche (dopo averla rasa al suolo): «Che disordine c’è qui!»
E anche gli stessi discendenti dell’uomo, che avrebbero ben potuto considerare quel che egli era stato sul punto di fare, furono uditi mormorare: «È un tipo così strambo! Pensa, usare queste antiche pietre solo per costruire una torre del tutto insensata! Perché non ha restaurato la vecchia casa? Non aveva il senso delle proporzioni!»
Ma dalla cima di quella torre l’uomo era stato in grado di spingere lo sguardo sino al mare.

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