Cosa voleva dire Jacob Grimm quando affermava che le fiabe seguono le leggi della natura? E come è possibile dirlo di storie in cui le pietre vengono scagliate nel cielo finché spariscono, le case si tramutano in castelli, bambine e nonne rimangono vive dentro la pancia di un lupo mentre i morti risuscitano in quantità? Certo non può essere in questo il rispetto delle leggi della natura.
La frase, però, ha un senso più profondo: molto spesso chi vive secondo natura, magari ingenuamente, ma più a contatto con gli elementi, è più facilmente destinatario del miracolo, riceve cioè la ricompensa soprannaturale come una conseguenza ovvia e meritata della sua vita. E vivere secondo natura significa dire sì al ritmo dell’esistenza, preoccuparsi dell’altro, amare secondo l’istinto e la forza del sangue per poi crescere e superare addirittura la limitatezza del proprio io. È a quel punto che il mistero ti premia.
Emblematico è il caso di una delle storie più note dell’immaginario grimmiano: Hansel e Gretel.
La vicenda è nota. Stremati dalla carestia e da una povertà insostenibile due genitori decidono di disfarsi dei propri figli. La madre, fredda calcolatrice, è la più determinata nell’esaminare la situazione e propendere per l’abbandono dei piccoli, tanto che il padre non riesce a far prevalere le sue obiezioni morali. Per ben due volte i bambini vengono abbandonati nel bosco: nella prima occasione ritrovano il sentiero grazie alle briciole che hanno lasciato dietro di sé, mentre la seconda volta sembrano spacciati perché alcuni uccelli gliele divorano. Si tratta però di una felix culpa, perché l’evento è il primo di una serie di sventure provvidenziali che finiscono col porre i bambini di fronte al proprio destino, alla propria maturazione personale che mai prescinderà dall’amore reciproco. Il terzo giorno, come dal nulla, si manifesta una colomba bianchissima che attira la loro attenzione. I bimbi per quanto stremati dalla fatica, dal sonno e della fame la seguono finché l’uccello non si posa sul tetto di una casetta e vi rimane immobile, proprio come la banderuola della piazza di Hanau. La casetta è di marzapane e i bambini la addentano avidamente; dentro però c’è una strega malvagia che li cattura, imprigiona il maschietto per metterlo all’ingrasso mentre la bimba è costretta a sbrigare i lavori domestici. Ancora una volta la casa nel bosco è lo spazio della tentazione e della prova: i bambini mentre si sfamavano hanno sentito una vocina che diceva loro di non toccare quel cibo, ma l’hanno ignorata, cedendo al loro istinto primario. Ma la casa della tentazione è anche la casa del riscatto, il luogo in cui si mettono in moto risorse superiori all’istinto. E infatti ambedue i fratelli si ingegnano per ingannare la strega: Hansel gli porge un osso fuori dalla gabbia per farle intendere che lui è ancora troppo magro per essere mangiato e Gretel fa anche di più riuscendo a sbatterla dentro al forno destinato al fratello.
Qui terminava la versione originaria della storia, con i bambini che ritornano a casa con i gioielli appartenuti alla strega. Lì il padre sopravvissuto alla perfida moglie li accoglie in lacrime. Ma anche Hansel e Gretel è una delle fiabe che si sono arricchite negli anni e sviluppate grazie alla mano di Wilhelm che, nell’edizione del 1819, inserì un nuovo finale più esteso e sicuramente più carico di simbologie. Non sembrava sufficiente per il suo modo di pensare che i bambini si fossero tratti in salvo con le proprie forze. Bisognava inserire una nuova transizione, meglio, un intervento esterno, il consueto evento imprevisto e miracoloso. E allora ecco che si inventa un fiume ampio e profondo che sbarra la strada del ritorno ai ragazzini. L’ispirazione viene dal vissuto personale. A Steinau, dove i Grimm hanno vissuto alcuni anni, il retro della loro casa dava sul fiume Kinzig separato dall’abitazione da quello che i ragazzi chiamavano il giardino delle api. Nella fiaba il testo parla di una gran distesa d’acqua, amplificando come al solito il dato di realtà e sfumandolo nell’indistinto più fascinoso e impressivo. Ed è così ampio questo fiume misterioso che i bambini hanno bisogno per solcarlo dell’aiuto di un’anitra bianca che chiamano a sé con una lievissima filastrocca, resa in italiano con un magistrale tocco di sgrammaticatura dalla traduzione di Clara Bovero
Anatrino, corri!
Hansel e Gretel qui soccorri
Nessun ponte passa il fiume,
prendici dunque sulle bianche piume.
Superare il fiume è secondo lo psicanalista Bruno Bettelheim il segno dell’ingresso in una nuova fase della vita, un nuovo inizio, tanto è vero che quando i bambini si erano addentrati nel bosco, all’andata, non c’era stata acqua da attraversare. Il fiume è così comparso nella storia, ingiustificabile da un punto di vista logico, ma perfettamente incastonato in una vicenda di crescita interiore che supera la logica fredda del calcolo e della misura. Quella era la logica della madre che di fronte all’estrema indigenza non interrogava il cuore ma stabiliva con freddezza una sottrazione. La bambina, che ora ha invece superato le sue prove, è capace di fare ancora di più. Si rifiuta di salire sul dorso dell’anitra assieme al fratello per non gravare di troppo peso l’animale, dimostrando così da subito la maturità e l’altruismo pienamente raggiunto. La solidarietà con la natura che la circonda viene prima addirittura della paura e del bisogno. Un finale che conferma l’idea iniziale: la vera crescita umana è andare al di là dell’io e non solo perché ti accade davanti un fatto imprevedibile ma perché questi doni del destino possono mettere in moto una nuova consapevolezza di te stesso e del mondo. L’immaginazione, il saper riconoscere l’incommensurabilità delle cose ha allargato il cuore e la mente e ora il personaggio è in grado, lui, di fare autonomamente quello che sembrava impossibile.