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se esiste il senso della realtà deve esistere il senso della possibilità

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Kavanagh:in memoria del padre

Nel giorno dei defunti, questa lirica di Patrick Kavanagh, grande poeta irlandese, tratta dall’antologia ‘Andremo a rubare in cielo’ (Ancora editrice) che ho pubblicato un paio d’anni fa e che raccoglie una quarantina di poesie di questo artista così poco noto da noi.
Per chiunque abbia perso una persona cara, l’idea che il suo volto, i suoi modi di essere e di fare, la sua andatura siano rintracciabili da qualche parte nel mondo, anche in un incontro casuale, avvenuto per qualche fortuita coincidenza o per uno scherzo del caso

Ogni anziano che vedo

Mi ricorda mio padre

Quando si innamorò della morte

Al tempo in cui si raccoglieva il grano.

Ne vidi uno a Gardiner Street

mentre inciampava sul marciapiede,

mi diede una mezza occhiata:

avrei potuto essere suo figlio

E mi ricordo del musicista

Esitante sul suo violino

A Bayswater, Londra,

lui pure mi ha posto quell’enigma.

Ogni anziano che vedo

Nel tempo che ha i colori di ottobre

Sembra dirmi:

una volta fui tuo padre

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La penna e la vanga

Da Virgilio fino a Seamus Heaney ci sono versi, liriche o interi poemi in cui la poesia che muove dalla terra riesce a combinare profondità di speculazione e originalità di sguardo con un senso reale di vita vissuta a contatto con il suolo, con i suoi ritmi, le stagioni,  dando al lettore la certezza che quelle parole lì’ siano veramente segno di vita, di impegno, di conoscenza della materialità del lavoro, del sudore. Non c’è profumo d’Arcadia quando la penna è credibile quanto la vanga, perché la stessa mano l’ha incontrata, perché chi scrive ha vissuto la vita della terra. Un esempio nitido viene dai versi del grandissimo poeta irlandese Patrick Kavanagh che così conclude la poesia Inniskeen Road.

Le otto e mezza e non si vede nulla
Nel raggio di un miglio, neanche lo straccio di un’ombra
Che potrebbe mutarsi in un uomo o una donna, neanche
Un’orma a saggiare i segreti della pietra.
Qui possiedo tutto ciò che i poeti detestano in vece
Di quelle chiacchiere solenni di contemplazione (…)
Una strada, un regno che misura un miglio. E sono re
Di terrapieni, pietre e di ogni cosa che sboccia”

E il bello è che questa fedeltà agli elementi naturali, questa osmosi regale nulla toglie alla forza dell’immaginazione, della metafora: diventa la piattaforma da cui l’esecuzione verbale prende slancio e non si pone più limiti perché conserva la memoria della radice, del luogo di partenza.  Così ancora Kavanagh ne ‘L’uomo dietro all’erpice’

Ora lascia che si allentino le redini
I semi oggi volano lontano –
I semi come stelle contro la nera
Eternità del fango d’aprile.
Questo è un seme potente come il seme
Della conoscenza nel libro degli Ebrei.
Così guida i tuoi cavalli nel credo
Di Dio padre come un fascio di grano.
Dimentica gli uomini sulla collina di Brady.
Dimentica ciò che il garzone di Brady potrà mai dire
Perché il destino non si compierà
finché non lasci che l”erpice vada.

 

La lettura di un evento ricorrente e in fondo semplice scagliata sullo sfondo biblico che rende ogni gesto gravido si significati è assolutamente immediata, plausibile, vigorosa.

Nessuna poesia però più di Digging, opera d’esordio programmatico di Seamus Heaney, rende questi concetti, argomenta e spiega credibilmente questa immedesimazione tra il lavoro dell’artista e quello di chi lavora la terra. Universi recisi da una certa idea urbana, intellettualistica di cultura, ma tra i quali non è così difficile andare e venire ; basta aver messo piede in un campo, aver seminato un orto, aver preso in mano gli strumenti antichi del lavoro della terra, anche solo una volta.

 

Quatta quatta con il colpo in canna
Fra medio e pollice sta la penna.
Sotto la finestra un raspo netto all’internarsi
Della vanga nel terreno ghiaioso:
È mio padre che dissoda. Guardo in basso,
Finché sotto sforzo, a groppa curva
Sulle aiuole, torna venti anni indietro
Piegandosi a tempo per i solchi
Di patate che vangava.
A posto sul vangile lo scarpone,
Saldo fulcro del manico il ginocchio,
Cavava gambi, ficcava a fondo la lucente lama
Per spargere patate nuove che noi raccattavamo
Adorandone fresca la durezza nella mano.
Per Dio, il vecchio ci sapeva fare
Con la vanga. Come il suo vecchio.

Mio nonno in una giornata tagliava più torba
Di chiunque altro nella torbiera di Toner.
Una volta gli portai il latte in una bottiglia
Sciattamente turata con la carta.
Si raddrizzò per bere e subito riprese
Con cura a fare tacche e fette, spalandosi le zolle
Dietro le spalle, sempre più a fondo
A cercare quella buona. Scavando.
Il freddo afrore di terriccio di patate, risucchio e stacco
Da torba in guazzo, secco taglio della lama
Nelle radici vive, mi si risvegliano in testa.
Ma non ho vanga per seguire uomini come loro.
Fra medio e pollice
Quatta quatta sta la penna.
Sarà la mia vanga.

W.B. Yeats: la mente di un vecchio diventa poesia

Guarda dietro di sé e accumula dubbi,  ma non può dimenticare la sua forza che è quella dell’immaginazione, anche se sembra non regalargli certezza. Di fronte al decadere del corpo e delle facoltà di un fisico che si incammina verso la fine, la riscossa della mente può essere solo rianimata dalla volontà del cuore , da una ‘frenesia’ che si volge attorno: un prato, un quadro, l’umiltà e il nonnulla naturale  di un topolino.  In questa poesia Yeats dà prova di tutta la sua fiducia nella capacità di guardare le cose in modo più pieno anche a fronte dell’idea della fine e del confronto sempre impari con una verità che può essere inseguita ma forse solo donata

Quadro e libro rimangono,
Un campo d’erba verde
Per prendere un po’ d’aria,
Ora che le forze del corpo se ne vanno;
Mezzanotte, una vecchia casa
In cui solo un topo si muove.

La mia tentazione è la quiete.
Qui al termine della vita
Né la sbrigliata immaginazione,
Né la macina della mente
Che ne consuma cenci e ossa,
Riescono a render nota la verità.

Mi sia concessa la frenesia di un vecchio,
Devo rifare me stesso
Fino ad essere Timone o Lear
O quel William Blake
Che bussò sul muro
Tanto che la Verità rispose al suo richiamo;

Una mente quale la conobbe Michelangelo
Tale da penetrare le nuvole,
O ispirata dalla frenesia
Da scuotere i morti nei sudari;
Del resto dimenticata dal genere umano:
La mente d’aquila di un vecchio.

The city of Chicago: Christy Moore

Durante il concerto di Alan Stivell ho ripercorso un po’ tutto il mio personale e mai troppo folto repertorio di musiche di tradizione celtica, irlandese, bretone, scozzese, manx…con una punta di nostalgia per quei vinili e soprattutto per le musicassette acquistate negli anni ’80: una addirittura a Sligo, deliziosa cittadina del nord ovest di irlanda, terra di William Butler Yeats. Così ritrovando su you tube questo gioiello del grande Christy Moore ho provato a tradurne il testo

A Chicago, per le vie della città

Quando calano le ombre della sera

C’è gente che sogna

Le colline del Donegal

1847: fu l’anno in cui tutto ebbe inizio

Gli atroci morsi della fame

Ne strapparono un milione alla loro terra.

Ma non viaggiarono in cerca di gloria

Non li mosse l’ingordigia

Fu un viaggio per sopravvivere

Tra le onde tempestose del mare

A Chicago per le vie della città

Quando calano le ombre della sera

C’è gente che sogna

Le colline del Donegal

Alcuni di loro ebbero buona sorte

Altri conobbero la fama

Per i più fu la vita fu dura

E caddero su quella terra.

Si dispersero nel paese

su carrozze di treni

ma portarono musica e canzoni

Per alleviare la solitudine del cuore

A Chicago per le vie della città

Quando calano le ombre della sera

C’è gente che sogna

Le colline del Donegal

 

…e Branduardi cantò Yeats (da la musica è altrove)

Ha una copertina grigia, quasi austera, ricorderebbe la Pulce d’Acqua se non fosse per tre pennellate orizzontali verde, rosa e blu: Branduardi canta Yeats è un disco in cui l’immaginazione lussureggiante, visionaria, coltissima e contadina del grande poeta irlandese, premio Nobel nel 1923, si sposa con una musicalità limpida e pudica, estremamente discreta nel dare il braccio alla poesia, nella certezza che quest’ultima potrebbe camminare benissimo anche da sola, ma col sostegno di due chitarre e ponderati interventi di percussioni e fiati può raggiungere spazi e persone cui difficilmente sarebbe arrivata per conto proprio.

Nato nel 1864 e morto nel 1938 Yeats è un poeta di immenso, stupefacente vigore espressivo, naturalmente incline a pensare per immagini ma soprattutto capace come pochi altri di combinare un senso immediato della natura con audaci speculazioni filosofiche. “Ha passato tutta la vita a bussare alle porte dell’invisibile – ha scritto di lui un altro grandissimo poeta irlandese, Seamus Heaney, Nobel nel 1995 –  in attesa di una risposta”.
Di fatto questa fame di assoluto Yeats  l’ha cercata come un rabdomante del sacro in ogni tradizione, come per setacciarne e raccoglierne le limature tramandate dalla storia. I classici latini e greci, poi l’India, l’ermetismo e la Cabala, la sua Irlanda brulicante di storie e di credenze: un Paese percorso in lungo e in largo, con un blocco di appunti per registrare in presa diretta i racconti dei contadini. Da questa appassionata indagine scaturiranno le “Fiabe Irlandesi” e il Crepuscolo celtico”.
Ma qualche settimana dopo Yeats potevi incontrarlo a Londra o Parigi nei circoli teosofici, a parlare di ocultismo e addirittura di un certo modo di vedere la politica. In altri periodi poi trascorreva notti insonni a consultare manuali di astrologia, andava a vedere rappresentazioni di teatro giapponese, oppure contattava gruppi di indipendentisti irlandesi per convertirli alla sua idea di una comunità basata sul patrimonio dell’immaginazione.  Le mille maschere di un uomo, i volti diversi ma mai artificiosi di un poeta che ha inseguito tutta la vita il desiderio di una meraviglia che dura, in una logorante guerra di posizione tra sogni che sembrano così evidenti e reali e una realtà che li sbriciola ma che a guardarla senza quel filtro sembra irrimediabilmente arida.

Da questa lotta senza quartiere deriva un autentico mare di poesie. Numerose e ricche raccolte pubblicate assieme a saggi e opere teatrali lungo tutto l’arco della vita, da cui la premiata coppia Angelo e Luisa estrae una frazione rappresentativa. Ci sono dentro gli dei di Irlanda, regine e buffoni, i cigni del lago di Coole, e ancora aviatori nei cieli della Prima guerra mondiale, bambine di fronte al mare, amori giovanili e senili meditazioni.

Riascoltato oggi a venticinque anni di distanza il disco pare suonato ieri. La timbrica dgeli strumenti, l’arrangiamento, la limpidezza del suono delle chitarre ne fanno un classico, un “servizio” esemplare alla poesia che veste i panni dell’essenzialità musicale per brillare in tutto il suo splendore lirico. E alla luce di quanto si ascolta oggigiorno sembra quasi miracoloso se non impossibile che un prodotto commerciale con al centro dieci poesie di un autore neanche italiano e per i più sconosciuto abbia raggiunto posizioni di vertice nelle classifiche di vendita e sia stato presentato doviziosamente nei più popolari talk show dell’epoca: su tutti un Domenica In con Mino Damato che legge i versi di “Un aviatore irlandese prevede la sua morte”prima dell’esecuzione live di Branduardi Fabrizio & co.

In quegli stessi anni dopo l’opulenta tournee di Cercando Branduardi aveva nel frattempo optato per un’ambientazione più raccolta per le sue esibizioni, quasi da musica da camera. Un quartetto, tutti strumenti acustici, moltissimi anni prima che il termine unplugged venisse coniato. Questa svolta risente molto dell’impatto con la poesia di Yeats.

Perché sempre più protagoniste sono le parole. Mai come in questo disco si condensa l’apparente paradosso tra il più musicale dei cantautori italiani e l’importanza decisiva della nuda parola. Ma forse è proprio la sobrietà di accompagnamento da poco riscoperta che conquista gli eredi di Yeats, tanto che velocemente concedono il nulla osta ad utilizzare i versi dell’illustre antenato. Apprezzano il garbo e il rigore del musicista ma sicuramente non sanno che tutto ha avuto inizio da una coppia di versi che la moglie un giorno ha squadernato di fronte agli occhi del marito.

 “Non volevo musicare Yeats. Io volevo essere Yeats”

 Come le onde del mare, come le onde del mare/ balla la gente quando suono il mio violino”.

Questi sono i versi da cui comincia tutto. L’incipit della poesia Il violinista di Dooney è per Branduardi più di un’illuminazione, è la conferma nella mente di una scena vissuta e ancora da vivere in tanti concerti.  Il violino nell’incavo del collo, la scintilla che scocca con l’inizio della melodia, il pubblico che risponde all’impulso sonoro. Non manca forse un pizzico di presunzione nell’appropriarsi il verso, ma l’idea di un gruppo di persone che si muove sciabordando sotto il palco di un teatro o di un palazzo dello Sport è una realtà provata più volte dal menestrello e che ora può ripetersi con la benedizione dell’identificazione forte con la parole del poeta.

Dooney è una rocca a picco sul lago Gill nella Contea di Sligo, l’area a nord ovest dell’Irlanda dalla quale provenivano gli antenati materni di Yeats e che il poeta elesse a sua “terra dei desideri del cuore”. Ancora oggi dalla sua cima si gode una vista superba del lago e delle sue insenature. E proprio da lì si racconta che scendesse periodicamente a valle un violinista cieco che con la forza delle sue improvvisazioni riusciva a radunare frotte di gente festante. Privo della vista come un indovino o uno sciamano di tante tradizioni mitiche, il violinista incarna così alla perfezione l’idea di un miracolo musicale, di qualcosa quasi soprannaturale che si manifesta improvvisamente e che diventa una specie di rito popolare, mistico e carnale.

“Mio fratello è prete a Kilvarnet/ mio cugino è prete a Mocharabuie/ ma io ho fatto più di mio fratello e mio cugino (…) Quando alla fine dei tempi/ noi ci presenteremo a Pietro/ andremo a lui seduto in maestà/allora lui sorriderà ai nostri tre vecchi spiriti/ma chiamerà me per primo oltre il cancello”

Addirittura meglio dei custodi istituzionali del sacro, il violinista conquista perfino il primo posto nelle gerarchie celesti: è lui che Pietro lascia entrare per primo riconoscendo ufficialmente i meriti da lui acquisiti nel consolare e deliziare la sua gente con la musica, perché

“sempre allegri sono i buoni/salvo che per cattiva sorte/e la gente allegra ama il violino/ e la gente allegra ama ballare”

Con un delizioso sillogismo Yeats mette in relazione le qualità morali on l’allegria e l’allegria con la musica che la genera. Branduardi sottoscrive: del resto le ragioni del suo fare musica sono un po’ le stesse, un insieme di profondità e divertimento, uno sguardo al cielo con i piedi ben piantati nella fisicità del suono e degli strumenti che lo producono: l’obiettivo, la felicità di chi ascolta.

Durante i concerti l’artista si sofferma a parlare parecchio delle singole poesie, ne racconta l’origine e si diverte a svelare i lati più imprevedibili della personalità di Yeats. Come è il caso de Il Cappello a Sonagli, la second traccia dell’album tradotta con mano leggera da Luisa dall’originale The Cap and The Bells. Qui troviamo dispiegato perfettamente tutto l’armamentario del poeta da giovane: c’è un buffone che per sedurre la regina le invia prima la sua anima poi il suo cuore, ma ambedue vengono respinti. Prova allora con successo a lasciare sul sentiero che lei la mattina percorre il suo cappello a sonagli rinunciando così a vivere. Impossessatasi dell’imprevedibile dono la regina inzia a cantare: solo allora l’anima e il cuore del buffone possono entarre nella sua stanza

 

“Quello rosso venne alla sua destra/ quella blu alla sua sinistra/ e facevano un rumore come di grilli/un chiacchierio dolce e saggio/ i suoi capelli erano un fiore ancora chiuso/quiete d’amore era ai suoi piedi/ era ai suoi piedi.

 La poesia è il racconto di un sogno del poeta stesso, secondo la testimonianza della sorella ed è frutto di un periodo costellato di autentiche ossessioni immaginative. Qualche sera prima Yeats aveva assistito lo zio febbricitante ascoltandone e registrandone con pazienza i deliri: a un certo punto il malato cominciò a dire che vedeva davanti al letto delle rosse figure danzanti. Il poeta aveva allora invocato l’Arcangelo Gabriele che nella cabala ebraica è l’angelo della luna ed ha potere sulle acque; immediatamente lo zio dichiarò di vedere un fiume che attarversava la stanza spazzando via le figure rosse.
Il mattino dopo il medico constatò che la febbre era passata meravigliandosi della rapidità della guarigione. “la sua sarà stata una specie di ipnosi – osservò ascoltando il racconto di Yeats – ma certo questa guarigione è un fatto davvero molto strano”

Così come strano è il destino del buffone la cui morte trasfigurata nel rosso del cuore e nel blu dell’anima finalmente ammessi al cospetto della regina che consuma la sua esistenza diventando musica, suscita il canto d’amore della donna.

Nel caso di questa poesia Branduardi adotta una melodia estremamente composita e variabile: nelle battute iniziali tutte appoggiate sullo stesso accordo di re maggiore arpeggiato con l’arricchimento di qualche nota intermedia riesce a dare alle prime parole di ogni strofa un’idea di stasi che sta per trasformarsi in movimento, cosa che puntualmente accade nella parte centrale e finale in cui la melodia si libra verso l’alto accompagnata da una vorticosa scala ascendnete della seconda chitarra, finché verso la cadenza i salti melodici sono padroni del campo. Puntuale in chiusura di ogni strofa l’intervento di due flauti dolci accordati per terze che sembrano confermare l’atmosfera fiabesca e rilanciare la storia verso la strofa successiva per poi chiudere il tutto in un finale in cui anche le chitarre tornano sull’accordo fondamentale.

Il cappello a sonagli resta uno degli esempi meglio riusciti di messa in musica di una poesia così colma di mistero, fascinazione e malia, ma concepita come una storia dallo sviluppo logico, almeno secondo la logica del sogno che individua nel canto il compimento di un desiderio d’amore. Sconfitto nella materialità, il buffone ha la sua rivincita in un Altrove immaginato con due semplici tocchi di colore per cuore e anima che cantano il proprio amore indistruttibile. Con estrema naturalezza e rigore nella composizione – strana terminologia per il resoconto di un sogno – i versi di Yeats e questa musica evocano immagini di altissimo valore simbolico con un’immediatezza che pare materializzarle davanti ai nostri occhi. Cuore, anima, amore, destino: tutti universali che fanno parte del bagaglio di ogni individuo, tutte parole anche qui con la lettera maiuscola che tanto spaventano certi intellettuali deboli ma che parlano la lingua dei sentimenti profondi che ognuno incontra almeno qualche volta nella vita; musica e poesia le mettono per così dire a disposizione in un loro universo che può essere nostro: ascoltarle, incontrarle e meditarle paragonandole col vissuto personale significa crescere nella consapevolezza di quanto grandi siano le possibilità e le risorse (anche) della nostra immaginazione.

Un sogno vigile, fatto a occhi aperti è quello che ispira l’ultima canzone del disco, Innisfree l’isola sul lago, la poesia più famosa di Yeats, costantemente ai primi posti in ogni sondaggio sulle migliori liriche della letteratura inglese. Un sogno ad occhi aperti raccontato dallo stesso Yeats nella sua Autobiografia: camminando sui “marciapiedi grigi” di Londra il giovane poeta si ferma rapito di fronte a una fontanina all’interno di un negozio sulla cui sommità, sospesa sul getto d’acqua si staglia una piccola sfera. L’immagine richiama alla sua memoria la forma dell’isoletta Innisfree, poco più di un batuffolo di terra in un’insenatura del lago Gill a Nord di Sligo, che se non fosse per le indicazioni turistiche sarebbe quasi introvabile in un giro dello specchio d’acqua che offre ben più spettacolari panorami. Nella mente di Yeats questa zolla di terra diventa una radura dove il poeta nostalgico sogna di ritirarsi ad allevare api in una casupola d’argilla.

E la da solo io vivrò/ io vivrò nella radura/ dove ronzano le api/ e là io pace avrò./ Lentamente, goccia  a goccia/viene dai veli del mattino/fino a dove il grillo canta.

Nonostante l’idealizzazione gli elementi naturali appaiono concreti e credibili. Le api ronzano davvero davanti agli occhi di chi ascolta così come lo sciabordare dell’acqua “che accarezza la riva piano”. Yeats non ancora trentenne riesce nel miracolo di dire l’essenziale del sogno cantandolo come la rivelazione oggettiva di un istante in cui le cose diventano reali: non un ‘utopia ma una possibilità che la natura concede, anche se al momento resta desiderio. Nel disco il brano è l’unico che si avvale di un’orchestra d’archi arrangiata da Maurizio Fabrizio a creare un tappeto sonoro stavolta ricco e corposo. La melodia è come spezzata in frasi brevi e ascendenti che terminano sempre sulla stessa nota dando l’impressione di tante piccole salite in cima a quello zampillo d’acqua che nel sogno di Yeats sostiene in equilibrio l’isola pallina.

Più la natura si presenta reale più il suo valore di segno risalta. Un qualcosa che avevamo già intravvisto nelle canzoni precedenti ma che nelle parole della grande poesia assume toni più nitidi e inequivocabili. Prendiamo ad esempio la prima traccia del disco, i Cigni di Coole, poesia che dà anche il nome a una delle raccolte più significative di Yeats. 

In ogni momento Yeats si sente provocato dalla sfida con il reale, che attaverso la natura ispira nell’uomo un senso di bellezza fragile, costantemente messo in pericolo dallo scorrere del tempo, da una materia che sembra proseguire per le sue vie di mutazione e abbandono incurante dello sguardo dell’uomo che – come i discepoli sul Tabor – vorrebbe fissare la sua emozione di meraviglia per sempre

Io le ho viste creature di luce/ così ora è triste il mio cuore/tutto è cambiato da quando io /per la prima volta su questa spiaggia/potei udire sul capo/come campane il battito delle loro ali/e ascoltando allora io camminavo/con passo più leggero/

E l’illuminazione di un momento che deve fare i conti con gli anni che passano: infatti secondo le parole stesse del poeta è il diciannovesimo autunno dal giorno in cui contò quei cigni per la prima volta e ora il sentore di perderli è più forte dell’incanto che ancora contempla

Navigando risalgono nell’acqua/ i loro cuori non sono cambiati/passione conquista li accompagnano/ovunque essi vadano vagando/ma ora lenti scivolano sull’acqua/misteriosi e belli./Tra quali giunchi faranno il nido/presso la sponda di quale lago/porteranno delizia agli occhi degli uomini/il giorno in cui mi sveglierò/ e scoprirò che se ne sono volati via

La polifonia, l’intarsio delle chitarre di Branduardi e Fabrizio traduce in musica il  senso di uno spettacolo che si dipana davanti agli occhi del poeta ma sembra scivolare via, allontanarsi, perché ubbidisce a una legge di natura di cui l’uomo contempla esclusivamente il riflesso sul piano dell’emozione. E’ uno spettacolo, d’accordo, ma che inesorabilmente imbocca la via dell’abbandono per abitare solo la memoria. Così l’arpeggio della chitarra principale ha l’accento costantemente spostato sul tempo debole della battuta, come se trascinasse via la melodia che la seconda accenna solo con qualche nota. Per tutta la durata del brano anche le percussioni  in controtempo rispetto al canto non fanno altro che spingere costantemente le parole in avanti fino all’ultima strofa solo musicale che si spegne glissando sull’accordo conclusivo.

Il confronto tra desiderio del cuore di fermare gli attimi e l’indifferenza del tempo, che anzi tiene soggiogato l’uomo alle sue leggi è il punto in cui la poetica di Yeats e la sensibilità di Angelo Branduardi coincidono in pieno. Anche altre due poesie stanno lì nel disco a confermare questa evidenza. Nella lirica A una bambina che danza nel vento, come abbiano visto nel capitolo dedicato al creato  per esempio il poeta si rivolge accorato alla bimba spensierata che volteggia sul bagnasciuga:

“Non ti curare del vento,/non ti curare se fa rumore il mare/ che bisogno c’è? 

Come i cigni di Coole la bimba sembra creatura sospesa in un tempo proprio, in una beatitudine intensa e momentanea

Tu sei così giovane/ e ancora non conosci/ ora danza là/tu il trionfo dello sciocco non sai/ o la perdita dell’amore appena nato/né perché mai il migliore se ne va/ e lascia il grano da legare/

L’inserto sembra argomentare, spiegare questa cruda educazione alla crescita che attende la bmbina, l’asprezza della realtà sembra togliere il terreno sotto i piedi alla speranza ma la bimba può continuare la sua danza – altro elemento riccorrente nelle canzoni di Branduardi, pensiamo a Girotondo, a La Danza, a Colgi la prima mela, allo stesso Ballo in fa# minore – senza aver timore degli elementi primordiali della natura

Il tempo della gioventù con le sue opportunità non colte è anche al cuore come abbiamo visto de Il Giardino dei Salici, penultimo brano del disco, anche se qui i toni sono molto più distesi ed elegiaci  e il quadretto sfiora l’idillio per quanto incompiuto

Nel giardino dei salici
ho incontrato il mio amore
là lei mi pregava
che prendessi la vita così come viene
così come l’erba
cresce sugli argini sel fiume
ero giovane e sciocco
ed ora non ho che lacrime

 

Qui abbiamo voluto tornare sul testo perché, sebbene semplice e immediato nasconde una lunga storia. Yeats dice di essersi ispirato al canto di una donna ascoltata a Ballisodare nei pressi di Sligo, dove in effetti a tutt’oggi c’è un pub chiamato Down by the salley Gardens. Ma la “versione” della donna con tutta probabilità è la resa imperfetta di un’altra lirica precedente “The rambling boys of pleasure” con la quale la poesia yeatsiana condivide il finale. Lo schema metrico, le rime dell’originale inglese, la ripetizione nel finale leggermente variata dei versi iniziati conservano tutto il sapore della ballata destinata al canto. E così anche le immagini quasi stilizzate ma he pure mantengono una certa innocenza come “le mani e i piedi bianchi di neve “.
Anche sulle diverse versioni musicali ci si potrebbe scrivere un capitolo intero. A noi basta ricordare che addirittura il grande compositore inglese Benjamin britten ha composto un arrangiamento di “Down by the Salley Gardens” e che la canzone è stata interpretata magnificamente dal gruppo folk rock irlandese dei Clannad, ma esistono versioni di Marianne Faithfull, Loreena Mc Kennit e dei Tangerine Dream. Un’interpretazione di Dolores Keane è la sigla finale del film Dancing at Lughnasa.

Branduardi in questo caso si discosta totalmente dalla melodia istituzionale per comporre però una specie di barcarola in 12/8, molto cantabile e immediata con la sua chitarra che disegna la linea dei bassi e Maurizio Fabrizio che improvvisa da par suo costruemdo armonie molto lievi e aperte fino allo splendido ponte strumentale. Il risultato è una canzone di grande freschezza e levità dove c’è poco spazio per la malinconia.

Branduardi e Yeats: io mi ricordo…

Le sagome di Branduardi e Fabrizio che emergono nel buio al primo arpeggio dei Cigni di Coole. Teatro Quirino. Roma E’ il 1986, ci sono i Mondiali del Messico: quelli del goal di maradona all’Inghilterra. Per fortuna il fuso orario aiuta e così posso godermi il concerto in pace con la prospettiva pallonara notturna.

Ma a quell’arpeggio lì, dimentcio ogni scadenza oraria  e mi perdo in quella suggestione. Le  chitarre  che sembrano  sospingere fisicamente in avanti la melodia con gli accenti spostati sulle note finali di ogni battuta, comea  imitare l’andamento dei cigno sull’acqua, proteso in avanti ma con olimpica compostezza.  
Non vedi le zampe del cigno. Vedi solo la sua sagoma che avanza e pare non fare alcuna fatica.

Poi ci sono stato a Coole. E’ vicino a Galway costa ovest dell’Irlanda. Nel libro descrivo così l’impressione del paesaggio. Leggetevela, ma se programmate un viaggio nell’Isola di Smeraldo andateci di corsa, ve lo garantisco: è uno spettacolo magnifico

Coole Park: chi lo ha visitato mantiene negli occhi l’idea di una cattedrale di verde, l’ingresso attraverso una navata dove alberi giganteschi si piegano a formare quella che sembra la volta a crociera di una chiesa gotica. E’ un viale lungo qualche centinaio di metri che immette in una radura più ampia. Di lì un dedalo di sentieri più stretti che attraversano sette boschi di specie arboree differenti. In fondo a uno dei percorsi lo specchio di un piccolo lago allungato e stretto, dalle rive fangose punteggiate di canne e vegetazione bassa. Silenzio. Rotto soltanto dai colpi d’ala di una frotta di cigni selvatici che di preferenza nidificano su uno degli isolotti adiacenti alla sponda opposta.

Ma Coole Park non è soltanto un incanto naturale. Qui lady Augusta Gregory, una delle madrine del Rinascimento Celtico ospitava in una villa in stile vittoriano artisti, scrittori e poeti impegnati nel suo stesso programma culturale: valorizzare il patrimonio di storie racconti e immaginazione del popolo irlandese, facendosi voce di una tradizione sopita ed accompagnare così la presa di coscienza di una nazione sottomessa allo straniero e condurla meglio sulla strada dell’indipendenza anche politica dall’Inghilterra. Siamo verso la fine dell’Ottocento, il secolo dei popoli che si risvegliano, e il giovane Yeats aderisce al programma soprattutto perché ha bisogno di interlocutori e di un riferimento storico al proprio fantasticare.

Ma la politica e il revanscismo restano per lui in fondo dei gusci vuoti, in ogni momento Yeats si sente provocato dalla sfida con il reale, che attaverso la natura ispira nell’uomo un senso di bellezza fragile, costantemente messo in pericolo dallo scorrere del tempo, da una materia che sembra proseguire per le sue vie di mutazione e abbandono incurante dello sguardo dell’uomo che – come i discepoli sul Tabor – vorrebbe fissare la sua emozione di meraviglia per sempre

Io le ho viste creature di luce/ così ora è triste il mio cuore/tutto è cambiato da quando io /per la prima volta su questa spiaggia/potei udire sul capo/come campane il battito delle loro ali/e ascoltando allora io camminavo/con passo più leggero/

E l’illuminazione di un momento che deve fare i conti con gli anni che passano: infatti secondo le parole stesse del poeta è il diciannovesimo autunno dal giorno in cui contò quei cigni per la prima volta e ora il sentore di perderli è più forte dell’incanto che ancora contempla

Navigando risalgono nell’acqua/ i loro cuori non sono cambiati/passione conquista li accompagnano/ovunque essi vadano vagando/ma ora lenti scivolano sull’acqua/misteriosi e belli./Tra quali giunchi faranno il nido/presso la sponda di quale lago/porteranno delizia agli occhi degli uomini/il giorno in cui mi sveglierò/ e scoprirò che se ne sono volati via

La polifonia, l’intarsio delle chitarre di Branduardi e Fabrizio traduce in musica il  senso di uno spettacolo che si dipana davanti agli occhi del poeta ma sembra scivolare via, allontanarsi, perché ubbidisce a una legge di natura di cui l’uomo contempla esclusivamente il riflesso sul piano dell’emozione. E’ uno spettacolo, d’accordo, ma che inesorabilmente imbocca la via dell’abbandono per abitare solo la memoria. Così l’arpeggio della chitarra principale ha l’accento costantemente spostato sul tempo debole della battuta, come se trascinasse via la melodia che la seconda accenna solo con qualche nota. Per tutta la durata del brano anche le percussioni  in controtempo rispetto al canto non fanno altro che spingere costantemente le parole in avanti fino all’ultima strofa solo musicale che si spegne glissando sull’accordo conclusivo.

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