La luna esatta e lussureggiante di Calvino
Quando, il giorno dopo l’allunaggio, una fitta schiera di intellettuali saggisti romanzieri cominciò ad innalzare inenarrabili lamenti sulla violazione, lo stupro del beneamato satellite – secolare fonte di ispirazione e struggimento poetico – affermando in sostanza che nessuno più avrebbe potuto scagliare l’immaginazione là dove un piede umano reale si era posato, Calvino ribadì che nulla era cambiato: anzi, la sfida ora era più grande e posta alla capacità dello sguardo di congetturare, presumere, andare al di là delle immagini convenzionali, perché come aveva scritto qualche tempo prima rivolgendosi ad un’apocalittica Anna Maria Ortese “chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più”
E il suo fu sempre uno sguardo che puntava a “dire di più”: appassionato ma lucido; fedele, freddo ma soprattutto capace di isolare e far emergere la potenzialità narrativa negli oggetti, anche come in questo celebre passo tratto da la distanza della luna, in cui l’assurdo di una ricotta tratta dal latte lunare diventa un dato di fascinosa surrealtà , eppure descritto con tale esattezza, asciuttezza e rigore da essere perfettamente credibile. E tanto più credibile quanti più aggettivi accorrono in soccorso della mente che legge e finisce quasi travolta da questa ricchezza lussureggiante e chirurgica di immaginazione. Dati fantastici ma perfettamente coerenti con questa disciplina rigorosa ma rutilante dell’immaginazione. Arte in cui Calvino è forse inarrivabile.
“Ora voi mi chiederete cosa diavolo andavamo a fare sulla Luna, e io ve lo spiego. Andavamo a raccogliere il latte, con un grosso cucchiaio ed un mastello. Il latte lunare era molto denso, come una specie di ricotta. Si formava negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza terrestre, volati su dalle praterie e foreste e lagune che il satellite sorvolava. Era composto essenzialmente di: succhi vegetali, girini di rana, bitume, lenticchie, miele d’api, cristalli d’amido, uova di storione, muffe, pollini, sostanze gelatinose, vermi, resine, pepe, sali minerali, materiale di combustione. Bastava immergere il cucchiaio sotto le scaglie che coprivano il suolo crostoso della Luna e lo si ritirava pieno di quella preziosa fanghiglia. Non allo stato puro, si capisce; le scorie erano molte: nella fermentazione (attraversando la Luna le distese di aria torrida sopra i deserti) non tutti i corpi si fondevano; alcuni rimanevano conficcati lì: unghie e cartilagini, chiodi, cavallucci marini, noccioli e peduncoli, cocci di stoviglie, ami da pesca, certe volte anche un pettine. Così questa purè, dopo raccolta, bisognava scremarla, passarla in un colino. Ma la difficoltà non era quella: era come mandarla sulla Terra. Si faceva così: ogni cucchiaiata la si lanciava in su, manovrando il cucchiaio come una catapulta, con due mani. La ricotta volava e se il tiro era abbastanza forte s’andava a spiaccicare sul soffitto, cioè sulla superficie marina. Una volta là, restava a galla e tirarla su dalla barca era poi facile. Anche in questi lanci mio cugino il sordo dispiegava una particolare bravura; aveva polso e mira; con un colpo deciso riusciva a centrare il suo tiro in un mastello che gli tendevamo dalla barca. Invece io certe volte facevo cilecca; la cucchiaiata non riusciva a vincere l’attrazione lunare e mi ricadeva in un occhio.”