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La Nona di Bruckner inaugura la stagione di Santa Cecilia

Una sinfonia titanica, di slanci smisurati, melodie avvolgenti e sinuose e di passaggi armonici di grande fascinosissima asprezza e sorprendente modernità. Di più, momenti che veramente sembrano consegnare l’ispirazione dell’anziano maestro alle dimensioni metafisiche dell’eternità. Parliamo della Nona sinfonia di Anton Bruckner che aprirà assieme ai Quattro pezzi sacri di Verdi la stagione 2012-2013 dell’Accademia di santa Cecilia.
La sinfonia che rimase incompiuta, anche alla luce della notoria e proverbiale indecisione del compositore nel venire a patto con i mille scrupoli che lo attanagliavano nel congedare i propri lavori, dura comunque attorno all’ora e racchiude dei momenti di lirismo assoluto capaci di deliziare l’appassionato ma anche di sorprendere al primo ascolto chi si accosti per la prima volta al mondo sonoro del musicista austriaco scomparso proprio l’11 ottobre del 1896.
Uomo di profonda religiosità, di una fede elementare nel vero senso della parola, perché aveva i tratti della devozione contadina e di un rigore gregoriano, Bruckner lottò tutta la vita con l’establishment musicale della sua epoca, incapace com’era di scrollarsi di dosso la scorza contadina, di imbastire rapporti umani col bon ton necessario nella capitale austriaca, di coniugare la devozione musicale ad un briciolo di pratico savoir faire.
Al termine delle prove di una sua sinfonia fu capace di regalare un tallero al grande direttore Artur Nikisch per complimentarsi per l’esecuzione, un’altra volta cacciò fuori dall’aula universitaria – dove insegnava contrappunto – un allievo reo di aver scritto due quinte parallele in un compito di armonia. In genere non riuscì a legare con l’entourage che ruotava attorno a Johannes Brahms, artista colto, di credo protestante che lo considerava alla stregua di un bonario valligiano col cervello imbevuto di superstizioni. Ci fu anche chi organizzò un pranzo di riconciliazione tra i due musicisti ma alcune battute intempestive di Bruckner fecero fallire miseramente il tentativo.
Ci fu anche però il momento della rivincita, quando al termine della prima esecuzione dell’Ottava Sinfonia – dedicata non senza una punta di sana ruffianeria a Francesco Giuseppe – il compositore fu sommerso da applausi, tre chiamate in scena, corone d’alloro al collo con le quali cercò di raggiungere la carrozza che riportava a casa Brahms e il critico Hanslick, il più ostile alla sua persona. In questo caso provvidenziali intermediari impedirono che la situazione degenerasse.
Rivincita che ora Bruckner conosce anche nel nostro paese dove l’intellighentsia musicale lo ha sempre ostracizzato, con l’accostamento delirante all’ideologia nazista solo perché musicologi nazisti tentarono di stravolgerne il senso dell’opera e perfino la fede religiosa e soprattutto perché alla morte di Hitler la Radio tedesca diffuse nell’etere le note dell’adagio della sua Settima Sinfonia (magistralmente usata anche da Luchino Visconti per il suo film Senso). Perfino Enzo Siciliano qualche anno fa nel suo spazio sul venerdì del quotidiano La repubblica tornò a ripetere l’infamante accusa.
Questa inaugurazione ufficiale del programma annuale di Santa Cecilia ha quindi anche un po’ il sapore di una riparazione e non a caso va in scena proprio la Nona: la più tersa, devota, complessa ma appagante delle sue creazioni, un lascito scritto nel mondo di qua con la testa e il cuore già in contemplazione di un Altrove, mai così distintamente evocato dai suoni umani. Forse addirittura meglio di Bach. Sicuramente con un cuore più puro.

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Una delle più belle musiche mai scritte

Partitura di Geschichte aus dem Wienerwald

Sarà perché sono ancora in quella atmosfera o perché ho sentito un musicista di strada con il suo zither in Kaertner Strasse, ma mi è tornato in mente questo che è secondo me uno dei più bei walzer e una delle più belle melodie mai escogitate dalla mente umana. Storie del bosco viennese, Geschichte aus dem Wienerwald, che Johann Strauss figlio scrisse ed eseguì nel 1868, è una composizione straordinaria perché illustra perfettamente un pensiero musicale adatto a qualsiasi pubblico e che nella semplicità del tessuto armonico, inventa, come in un ciclo inarrestabile, nuovi discorsi musicali, sempre affini l’un l’altro ma ogni volta sorprendenti per inventiva, genialità di accostamento, craetività. Si può quasi dire che il walzer potrebbe anche non concludersi tanto sorprendenti e freschi sono i temi che si susseguono. Alla fine rimaniamo come convinti che se ne potrebbero sviluppare altrettanti, che non ci stancheremmo certo di ascoltare.

Infine, e con buona pace dei detrattori, ricorderei che da Brahms a Schoenberg – che ne fece straordinarie trascrizioni per orchestra da camera e per diletto personale – tutti i grandi musicisti di ogni epoca e genere hanno idolatrato questo stesso Strauss che tanti critici spocchiosi di ieri e oggi, grigi e tetri nonché ammantati di intellettualismo, denigrano come autorucolo di musica da “tonica e dominante”. Ma adesso basta con le chiacchiere…godetevelo

Ma gli White Stripes hanno copiato Bruckner?

La diatriba su chi copia chi in campo musicale è vecchia quanto il mondo ed è più volte negli ultimi tempi arrivata a conquistare anche dotti articoli giornalistici.
Molto spesso data l’estrema labilità della materia è difficilissimo stabilire filiazioni certe (per non dire scopiazzamenti); ci sono casi poi talmente clamorosi e improbabili che possono strappare quantomeno qualche divertito commento e insegnarci a essere meno apodittici nel distribuire patenti di pirateria delle idee.
E questo è uno di quelli: ricordarete tutti il famoso “po-po-po” che accompagnò la conquista del titolo mondiale dell’Italia nel 2006 e che tra l’altro stiamo risascoltando in questi giorni anche dagli altoparlanti ufficiali degli Europei.
L’inno da stadio fu esportato dagli ultrà romanisti che durante la partita di coppa tra bruges e Roma qualche mese prima l’avevano fatta propria ascoltandola nello stadio belga che la diffondeva ad ogni gol della squadra locale. Al gol del pareggio, i supporters giallorossi la ricantarono a mo’ di sfottò per gli avversari visto che con quella marcatura la Roma conquistò la qualificazione al turno successivo.
Tutti sappiamo che la musica in questione è una canzone del gruppo White Stripes intitolata Seven nation Army che qui potete ascoltare

Pochi però potevano immaginare che il tema della canzone (il famoso ‘po-po-po’) è letteralmente uguale al primo tema del primo movimento della quinta sinfonia di Anton bruckner, la più complessa e ‘programmatica’ tra le creazioni del compositore austriaco. Se siete pigri e non volete ascoltarlo tutto spostate il cursore di you tube intorno ai 3′ del seguente video per rendervene conto

Come vedete la somiglianza è impressionate: adesso quindi l’alternativa è semplice: o 1) gli White stripes conoscono la sinfonia ed hanno voluto implicitamente omaggiare il povero Anton studiato magari in lunghe notti presso il locale conservatorio americano (non so di dove sia originario il gruppo ma me ne interessa il giusto); oppure 2) una bella idea ritnmico-melodica di un paio di battute può essere escogitata indipendente anche a migliaia di chilometri (e più di un centinaio di anni) di distanza.
Se è valida l’opzione 1, allora onore agli White Stripes – il più colto gruppo pop-rock della storia – per essersi ispirati a uno dei più grandi e meno noti compositori della storia, se invece è vera la 2, la cosa ci fornisce un insegnamento: andiamoci piano quando parliamo di copiature e ricordiamo che le note sono sette (anzi dodici con le alterazioni) e le coincidenze a volte non sono per forza truffaldine

Bruckner: un ‘tranquillo’ viennese d’adozione

Davanti al Belvedere

Pochi anni prima di morire Anton Bruckner ottenne da Francesco Giuseppe in persona il permesso di abitare in alcune stanze del Belvedere: lo splendido complesso viennese situato nei pressi dell’attuale Sudtiroler Platz e che intravvedete alle mie spalle.

Bruckner, musicista immenso ma assai poco consciuto in Italia è anche uno dei personaggi più singolari della storia della musica di questa città. Arrivato dall’Austria superiore, formatosi musicalmente in maniera a dir poco travagliata sostenne un’esame talmente brillante di composizione che i docenti gli dissero candidamente che avrebbe dovuto essere lui ad esaminarli anziché il contrario. Impaciato, goffo nelle movenze, maldestro con le numerose signorine della vienna borghese delle quali invano chiese la mano Bruckner ha composto delle sinfonie fluviali, che arrivano anche a toccare gli 80 minuti di durata e che passano da momenti di straordinario e delicato lirismo a vere e proprie orge di suono dominato dal clangore degli ottoni. Il tutto con una purezza, un’immediatezza e un’innocenza di sguardo bilanciata da un rigoroso e severo contrappunto materia in cui Bruckner eccelleva e che insegnò anche all’Università di Vienna nei suoi ultimi anni.

Aluni aneddoti della vita forniscono ulteriori particolari sul suo carattere. Al termine dell’esecuzione di una sua sinfonia, nell’empito dell’entusiasmo offrì addirittura un tallero al direttore d’orchestra, il grande Arthur Nikisch invitandolo a bere alla sua salute. Pare che  Nikisch commosso fino alle lacrime abbia tenuto vita natural durante quel tallero nella sua cassaforte personale. Un’altra volta ad un discepolo che gli chieedeva come avesse fatto ad inventare un tema di così limpida purezza e intensità espressiva per l’Adagio della sesta sinfinia rivelò candidamente di ‘averlo trovato negli occhi di una donna’.

Così era Bruckner, terrigno e candido, capace di dedicare le sue sinfonie all’Arciduca di turno, anche per ovvi motivi di opportunità politica, per poi scegliere dome destinatario per quella succesiva addirittura ‘il buon Dio’, cui dedicò proprio l’ultima, incompiuta e ‘sovrumana’ Nona.

Se non avete mai ascoltato nulla di lui, un consiglio spassionato. Iniziate dalla Settima, il cui Adagio Luchino Visconti utilizzò per il suo film ‘Senso’, e Visconti era uno che la Mitteleuropa la conosceva davvero…

Saverio Simonelli

Vienna: il turno di guardia per la primavera

Se qualcuno vi dice che il ritmo della vita viennese è lontano dalle nevrosi di altre capitali occidentali, che la pausa pranzo sembra più lunga e rilassata, che nell’aria si percepiscono ancora vaghe tracce di una qualche gioiosità fosse anche un po’ imbarazzata, be’ se vi dicono questo non abbiate paura dello spettro del luogo comune, perché si tratta di un’impressione chiara e comprovata. Solo in una città così una mano formatasi alle finezze estetiche ha potuto scrivere in un fazzoletto di verde pubblico “Qui si risveglia la primavera. Si prega di non disturbare”.

Città avviluppata sulla propria storia con i cerchi concentrici del Gurtel e del Ring che la cingono racchiudendola come una spirale che punta centri onusti di passato ma praticamente nulli sullo scacchiere politico-commerciale contemporaneo…chi andrebbe a cercare lo spread rispetto ai mercati viennesi? Chi a cercare sconvolgenti pizzini e vari leaks a due passi dallo Hofburg dove ancora esibiscono le loro volute innaturali e sublimi i cavalli lipizzani e l’aroma di sterco umetta l’aria senza remora alcuna?

Vienna è ancora la città del walzer, dove il Bel Danubio blu risuona perfino lindo e pinto dalla toilette del sottopassaggio dell’Oper Ring, dove d’inverno si estraggono in una lotteria i biglietti per il Concerto di Capodanno dell’anno successivo, dove perfino la salita verso la Gloriette sopra Schoenbrunn preferisce le curve suadenti come un ritmo ternario alla banale unidirezionalità di una strada dritta in salita, martellante come un 2/4 di marcia.

Superiore e più forte di ogni demitizzazione il walzer resiste perché nasce come qualcosa di trasversale alle classi sociali, alla cultura, ai gusti. Pensate, nel 1781 l’imperatore Giuseppe II potè invitare al ballo di corte ben tremila concittadini senza troppie ricerche di accrediti o di pedigree galanti. Qualcosa che in Francia nessuno si sarebbe sognato di fare.

Ricordo perfettamente un giovane ricercatore di filologia classica all’Università di Graz che in un capodanno romano negli anni ’80 dopo aver disquisito di autodeterminazione dei popoli sfruttati dal capitalismo internazionale si illuminò ballando in dieci metri quadri di una casetta del quartiere Aurelio proprio il Bel Danubio Blu. E penso a questa vitalità al di là di ogni posibile critica oggi guardando un ragazo che fa evoluzioni con la bici di fronte al monumento di Francesco I col berretto girato e la visiera che gli insidia la nuca e le ruote del suo funambolico mezzo che stridono sul selciato. Anche questo è walzer – mi dico -anche questo è ritmo che gira su se stesso e non ha voglia di cercare nient’altro che la propria gioia. Intima e coerente. E possibile per tutti.

Vienna/3: dal Belvedere agli arcobaleni di Hundertwasser

“L’orizzontale si addice alla natura. All’uomo il verticale”. Lo diceva Friedrich Hundertwasser, pittore, architetto, pensatore austriaco; uno la cui voce è perfetta per la luna. Vissuto nella seconda metà del Novecento Hundertwasser è noto per le sue case strampalate e fiabesche, ma pensate a misura d’uomo, per la riscoperta di un dimensione interiore del vivere, contro ogni logica di riduzionismo dello slancio vitale della creatura. A Vienna la casa da lui ideata è un luogo di culto: variopinta, svettante verso l’alto – verso il ‘verticale, appunto – quasi sfrontata nel proporsi in mezzo a edifici squadrati, logici e razionali.

L’idea gli venne alla fine degli anni ’70: dotare un quartiere popolare di un edificio in cui l’inventiva trionfasse sull’anonimato, sul grigiore, sul razionalismo mortifero. Pensate, Hundertwasser ha anche teorizzato il ‘diritto alla finestra’: ciascun inquilino della casa avrebbe potuto sbizzarrirsi con i colori sulla superificie dell’edificio a ‘portata’ del proprio braccio. Anche se nessuno a Vienna ancora se l’è sentita di provarci.

Oggi pomeriggio, una domenica di inzio estate , l’area si è popolata poco a poco. Americani, slavi, italiani (ovviamente), giapponesi; dei giovani studenti austriaci ti chiedono garbatamente se hai dieci minuti per discorrere con loro e confrontarti sull’idea di architettura. Vorrei dirgli che per me è un altro modo di fare musica, di conquistare lo spazio a forza di idee, trovate, equilibri.  Vorrei ma c’è poco tempo… mi aspetta il Prater e un altro giro sul Ring.

Stamani il Belvedere, la mostra permanente dal Settecento all’Espressionismo: Klimt, Kokoschka, il mio Friedrich, e poi una scoperta: Maximilian Oppenheimer che con la bomba e l’acquaa pesante non c’entra nulla, ma c’entra e tantissimo con la musica: suo il quadro “die Philarmoniker”, un vortice, una tempesta che avviluppa l’orchestra e la scaglia sulla tela a cercare un centro impossibile da raggiungere. Colori taglienti come lame per un’inquetudine che è moto perpetuo. Da vedere e rivedere. Infine, l’Unteres Belvedere con l’abitazione che fu degli ultimi anni del grande Anton Bruckner, il titanico compositore dell’Austria profonda dalle sinfonie interminabili e lanciate verso l’Infinito. Ma di lui parleremo più dettagliatamente in una prossima occasione

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