Anche se ovviamente una battaglia persa, come dimostra la recensione pubblicata ieri su La Lettura del Corriere della Sera che presenta una nuova antologia delle fiabe realizzata dallo studioso americano Jack Zipes (Donzelli editore).
Si tratta di 41 fiabe selezionate a partire dall’edizione del 1812, quella cioè che i Grimm si affrettarono a rivedere dopo i magri risultati editoriali e alla luce di una reciproca chiarificazione del proprio lavoro filologico, e che venne quindi rivista per ben sei volte fino ad arrivare a quella definitiva del 1857. L’antologia, di fatto parziale, parzialissima, che riguarda meno di un terzo dell’opera, un quinto se si tiene conto dell’edizione definitiva, viene rilanciata sul quotidiano ponendo l’enfasi sui seguenti motivi: le abitudini sessuali di Rapunzel, la cui gravidanza diventa titolo a tutta pagina, la presenza di una fiaba in cui i bambini giocano a fare i macellai, il fatto che nella prima edizione di Biancaneve la matrigna sia in realtà una madre naturale. I Grimm, infine, vengono, in modo quantomeno parziale, definiti folkloristi.
Il sommarietto dell’articolo poi è tutto un programma, celebrando una versione delle Fiabe finalmente “senza censure”. Non male neanche una parte dell’intervista di Zipes che seraficamente sostiene come “le fiabe continuino ad interessarci perché sono drammi in cui gli esseri umani mettono in scena desideri, odio, invidia, speranza”. Il che probabilmente vale per almeno il 95% della buona e cattiva letteratura, fiabe e miti inclusi.
Il problema dell’articolo non sta comunque nella veridicità dell’informazione, che è acclarata, ma nella parzialità di quanto si fornisce ai fruitori di un così prestigioso strumento culturale. E’ vero che l’edizione del 1812 era assai più macabra delle successive, ma l’operazione dei Grimm sui loro testi non ebbe nulla a che fare con un atteggiamento censorio da bravi borghesi ossequiosi della morale comune.
Spiegarlo è molto facile. Basta aver letto con la mente sgombra ad esempio i diari dei fratelli. Jacob e Wilhelm credevano che tra gli intenti della mente umana che aveva inventato le fiabe non ci fosse “la rappresentazione dei drammi umani” ma l’idea che nel mondo ci fossero all’opera forze misteriose, venerande e terribili, ma spesso anche provvidenziali. Un’idea che secondo loro e per molti romantici dell’epoca risaliva agli albori del medioevo, all’epoca di passaggio dalla spiritualità pagana a quella cristiana. La fiaba quindi doveva rappresentare un mondo anarchico, imprevedibile, minaccioso, dove a un certo punto avviene un atto di salvezza. Umana, sgangherata, rabberciata, ottenuta con l’imbroglio o con la santità. Non importa. Ma accadeva. Ed era questo il dato fondamentale.
Come spiega Max Luthi, studioso vero di quel mondo, la “fiaba è l’espressione poetica del fatto che ci si trova in un mondo non privo di senso e al quale possiamo adattarci e viverci anche se non siamo in grado di afferrarlo fino in fondo. Per questo l’eroe viene condotto in salvo attraverso i pericoli. Anche il lettore allora, immedesimandosi nel personaggio e nelle sue progressive tappe verso il lieto fine, vive una specie di battesimo della propria immaginazione”.
Wilhelm quindi lavorò sulle fiabe per raggiungere questo incanto, questo luogo lontano che, citando Tolkien, offre alla mente di chi legge ristoro e consolazione; dove il male non è escluso, gioca un ruolo fondamentale, ma il più delle volte è vinto e l’uomo redento.
Un altro esempio: la madre di Biancaneve diventa matrigna certo anche per non turbare lettori e custodi di morale, ma molto di più perché l’idea di ua ragazza che rimane orfana, scagliata da sola al cospetto del grande mondo, è molto più funzionale allo sviluppo di una storia in cui il protagonista è quasi sempre sciolto da legami, in un contesto minaccioso e dove conta molto più il ‘fare’ che l’essere’. Alla fiaba, come ha ricordato di recente Philip Pullman, non interessa l’introspezione, interessa la velocità dell’azione, il suo fulmineo svolgersi per sorprendere i lettori. Basta rileggersi Biancaneve nella versione finale del 1857 ( a proposito, strano il caso, quasi unico nella ricezione di un’opera letteraria in cui si criticano degli autori per aver rivisto una propria opera, ma i promessi Sposi in che forma li leggiamo?), basta rileggere, dicevamo, l’inizio di questa fiaba letterariamente perfetta per capire quanto cresca l’ effetto tragico nel far morire la madre all’inizio della storia con la stupenda simbologia della finestra, dell’attesa e dell’inverno, certo motivi letterariamente più efficaci di una lubrica storia di invidia. In Biancaneve, come in ogni favola, conta la redenzione finale di un atto d’amore che vince sulla cattiveria, non lo scandalo di una madre omicida, quello magari va meglio in una fiction della domenica serà. Almeno questo è quello che interessava i Grimm e li muoveva a scrivere e rivedere e infine a pubblicare la versione definitiva delle loro fiabe. Si può essere d’accordo o meno ma è fuorviante e culturalmente scorretto presentare altri elementi, reali, ma assolutamente parziali e non definitivi, come il motivo di interesse di una nuova pubblicazione.
Auguriamo alla Rapunzel della prima versione di essersi appagata a sufficienza nella torre, ma a noi interessa la sua salvezza, non un test di gravidanza. Perché la fiaba non è un reality.